Scacchi e Giallo
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(Fabio Lotti)
Partiamo dal giallo, ovvero dal capostipite del romanzo poliziesco. Parlo della vita di Edgar Allan Poe. Tutti (o quasi) la conoscono. Non c’è bisogno di farla lunga. Vi troviamo un intermezzo inglese, buoni studi, un matrimonio con una cugina tredicenne il cui aspetto fragile ed etereo gli ricorda la madre morta di tisi e, soprattutto, l’alcol. Una vita genio e sregolatezza dove è difficile assegnare la palma all’uno o all’altra (ricordo in suo onore “Nel cuore del buio”, una raccolta dei più famosi racconti curati amorevolmente da Michael Connolly, Piemme 2009, con l’apporto di venti autori di thriller “che celebrano qui il bicentenario della nascita del genio americano riconoscendo il loro debito nei suoi confronti”). Qualcosa di simile con quella di Raymond Chandler basata su una educazione vittoriana, la buona scuola, il matrimonio con una “mamma” più vecchia di lui e, ancora una volta, l’alcol.
[Nell’immagine di apertura, Il MI olandese Manuel Bosboom, ritratto da Lennart Ootes al Batavia 2018]
Ecco, le sbevazzatone alcoliche sono una costante comune di molti giallisti di razza (anche di letteratoni, ad onor del vero e di gente normale, se proprio devo dirla tutta), soprattutto della scuola dei duri americani. Ricordo Dashiell Hammett, una vita di lavori precari, la separazione dalla moglie, la tubercolosi, il processo durante il periodo del maccartismo. Conclusione: finisce povero e solo.
L’alcol lega fra loro anche tante vite dedite ai cosiddetti noir e ad altre diramazioni giallistiche. Rallegrate dalla galera per renderle più frizzanti. Vedi quella di Edward Bunker, per esempio, l’autore di “Come una bestia feroce” e “Autobiografia di una canaglia”, per rinfrescare la memoria. Ai gorgogli bruciabudella si aggiungono tutta una serie di collegi, riformatori e, dulcis in fundo, il carcere di San Quentin. Ma lui non se la prende troppo e diventa perfino attore e sceneggiatore dei film tratti dai suoi libri (quando si dice un forte carattere).
Di James Ellroy basta il nome per evocare immani tragedie e lutti personali (tipica frase fatta) come l’assassinio della madre, l’alcol, la droga, la delinquenza, il carcere minorile, la depressione, i ricoveri ospedalieri. Di tutto e di più ed è ancora vivo e vegeto a dimostrazione della testarda resistenza della natura umana (o è lui che non è umano…).
Anche James Lee Burke, quello di “Pioggia al neon”, ha dovuto sopportare sacrifici durissimi. Nessuno voleva pubblicargli i suoi libri fino a quando ha conosciuto l’agente letterario Spitzer (anche gli agenti letterari hanno un’anima). E in galera per rapina a mano armata c’è finito pure Chester Bomar Himes che ha lasciato una serie di polizieschi basati sul problema del razzismo. Si ricordano i due detective neri Coffin Ed Johnson e Grave Digger per il loro soprannomi rispettivamente Ed la Bara e Jones lo Scavafossi che sono tutto un programma e ti mettono un’allegria addosso….
Chi non conosce la storia di Stephen King ? (altra frase fatta). Si sa che in un dato periodo della sua vita ha sniffato tanta coca da dover lavorare con i tamponi al naso e di avere recitato il discorso di addio alla madre completamente ubriaco. Aggiungo un incidente stradale investito da una macchina con conseguenti interminabili operazioni (sfigato è dir poco). E chi non conosce quella di Howard Philips Lovecraft, il padre del genere horror, condannato praticamente all’isolamento completo nella più tenera età? Mal di testa continui, esaurimenti nervosi, difficoltà a trovare lavoro.
Oltre alla sfortuna e all’alcool qualche volta ci si mette di mezzo anche la politica. Così accade per Jim Thompson (si dice che fosse “alcolizzato, vagabondo, donnaiolo”) che ha influenzato l’evoluzione del noir dopo gli anni cinquanta. Ispiratosi a Marx nei suoi libri critica la famiglia, il matrimonio e il lavoro (per lui il male è dappertutto e non c’è nemmeno da dargli torto). Così succede in Francia a Leo Malet. Orfano allevato dal nonno bibliofilo, vaga per il suo paese, soprattutto da una parte all’altra di Parigi, fa mille mestieri, ha amicizie anarchico-surrealiste. I suoi personaggi sono oppressi dalla società, da se stessi, da tutto. Unica alternativa la ribellione (ogni tanto ci sta bene).
Fin qui mi sono accorto di avere parlato solo di uomini (la fila sarebbe ancora lunga). E le donne? Beh, anche su di loro si può dire qualcosa. Ho proprio sotto gli occhi “Undici calze di seta” di Craig Rice, Polillo 2004, il cui destino non è poi così difforme da quello dei maschietti sopra citati. Praticamente abbandonata dai suoi genitori in giro per l’Europa a divorziare e a risposarsi anche lei prende questo vizietto e contrae cinque matrimoni (la mi’ nonna!) da cui vengono fuori due figlie ed un figlio. Sorda da un orecchio e cieca da un occhio (per non far torto all’uno dei due sensi) è attratta dalla bottiglia tanto che deve essere ricoverata al Camarillo State Hospital per alcolismo cronico. Per due volte tenta il suicidio. Viene trovata morta nel suo appartamento di Los Angeles a soli quarantanove anni probabilmente “per un micidiale cocktail di alcol e farmaci”.
Poi c’è Christianna Brand che non beve ma nella vita si dà da fare: “governante, commessa, ballerina, modella, segretaria, insegnante di danza, standista e decoratrice d’interni”. Quando si mette a scrivere per lei è una bazzecola (e me la immagino a tirare un sospiro di sollievo).
Chiudo con Mary Rinheart. Era una scrittrice americana nata a Pittsburgh nel 1876 da una famiglia molto povera il cui padre, tra l’altro, muore suicida e la madre rimane paralizzata in conseguenza di una grave ustione (sembra pari pari il personaggio di un libro). Una esistenza tribolata fino a quando riesce a pubblicare, proprio negli anni sopra citati, due romanzi polizieschi “Lo sconosciuto del vagone letto” e “La scala a chiocciola” che cambiano, almeno in parte, il corso tradizionale del giallo.
La situazione non migliora passando a certe esistenze relative al mondo degli scacchi. Figura emblematica Aleksandr Aleksandrovic Alekhine (1892/1946). Campione del mondo dal 1927 al 1935 e dal 1937 al 1946, perde un titolo per via delle sbevazzatone alcoliche. Più precisamente contro Max Euwe che non era un fulmine di guerra. Sembra che espletasse perfino qualche bisogno impellente sul pavimento del tavolo da gioco. Però con grande sforzo di volontà si disintossica e riconquista il titolo. Da proporre come esempio agli alcolisti.
Mikhail Tal (1936-1992) invece, campione del mondo nel 1960, riesce a vincere, completamente sbronzo, un torneo in Canada. Si dice che venisse sorretto da due aiutanti, per arrivare a sedersi davanti alla scacchiera. Insuperabile giocatore d’attacco ebbe una salute travagliata per il fumo e la vodka. E due occhi che fulminavano. Ci fu addirittura un giocatore, Pal Benko, che all’inizio di una partita contro Tal si mise un paio di occhiali neri “per neutralizzare quello che, secondo lui, era il potere ipnotico del campione del mondo (“Aneddoti di scacchi” di Mario Leoncini, Messaggerie Scacchistiche 2003, pag. 62. Sempre dello stesso autore, per quanto riguarda curiosità varie sul mondo scacchistico, “A ladro!”, Caissa Italia 2005).
Culo e camicia furono la bottiglia di whisky e Joseph Henry Blackburne (1841-1924) forte giocatore inglese dell’Ottocento, soprannominato “La morte nera” per il suo stile aggressivo e combinativo, tale da “uccidere” in poco tempo avversari di caratura inferiore. Se vedeva qualcosa di alcolico in giro non aveva scampo, fosse pure sul tavolo da gioco di un avversario. Una volta, persa una partita con Steinitz, altro grande Re degli scacchi, lo buttò giù dalla finestra. Fortuna che si era al pian terreno.
Di Efim Bogoliubov si racconta che una sera a Nottingham, ad un cameriere che gli chiedeva il numero della stanza, rispose con l’unica parola d’inglese che conosceva, ovvero “Birra!”.
Anche quello spilungone di Frank Marshall aveva una particolare predisposizione per i bruciabudella di qualità e Reuben Fine racconta che fu sconfitto per ben 10-0 dall’americano in uno stato piuttosto esuberante (in quel senso). Lo stesso Fine che, ad onor del vero, aveva uno splendido rapporto con un certo tipo di famigerate bottiglie…
Ce ne sarebbero altre da raccontare, vedi le storie di Marco, Stahlberg, Stolz, Kholmov, Vujovic (conosciuto personalmente in piena forma tra boccali di birra) e chi più ne ha più ne metta, ma qui mi fermo. Vite dure, difficili. Vite alcoliche. Eppure, forse per questo o anche per questo, o addirittura proprio per questo, vite grandi. E allora un grazie di cuore per tutto quello che ci hanno dato mi viene proprio spontaneo. Magari insieme ad un goccetto per tirarci su il morale e assomigliare un po’ a loro.
Cin cin!
Fabio Lotti è nato a Poggibonsi (Siena) nel 1946. Laureato in Materie Letterarie, è Maestro per corrispondenza e collaboratore di riviste scacchistiche specializzate. Ha pubblicato vari testi teorici, tra i quali “Il Dragone italiano“, “Gambetti per vincere” e “Guida pratica alle aperture“.
Scacchi e alcol un gran bel mixer per scrittori lettori e giocatori, facciamoci un bicchhierino anche noi
Bravo Fabio! Curioso e inedito approfondimento…
Un altro bellissimo viaggio a bordo del tappeto volante targato “Fabio Lotti”, stavolta fra personaggi della letteratura le cui vite sono già, di per sé, delle avventure pazzesche.
Edward Bunker, criminale incallito che scopre il valore della cultura; James Ellroy, vita davvero travagliata la sua, ma che carattere (“Sono molto bravo a trasformare la merda in oro”, beato lui!).
Grazie ancora, Fabione!
Oh, finalmente sono riuscita a leggerlo! Bello! Bravo Fabio!