Chi ha inventato gli alfieri campochiaro e camposcuro?
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(Tristano Gargiulo)
Enrico Paoli è stato un forte giocatore italiano, che conquistò il titolo di Maestro Internazionale al Torneo di Venezia del 1951 e fu dichiarato Grande Maestro honoris causa dalla F.I.D.E. nel 1996, nonché un eccellente organizzatore: la sua creatura più amata fu il tradizionale torneo di Capodanno di Reggio Emilia, che si svolse pressoché ininterrottamente dal 1958 al 2011, sempre tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, sopravvivendo di pochi anni alla scomparsa del fondatore.
Ma è stato anche un autore di libri di scacchi che hanno avuto grande fortuna nel nostro paese e hanno accompagnato la formazione scacchistica di diverse generazioni di giocatori italiani a partire dagli anni 60. Essendo di professione maestro di scuola, Paoli aveva sempre la massima attenzione per la chiarezza e la correttezza linguistica della sua scrittura, perché fosse irreprensibile e perché avesse il massimo dell’efficacia didattica.
Quello che forse non tutti sanno è che due importanti neologismi, entrati di diritto nella terminologia tecnica di tutti gli scacchisti italiani, si devono a lui. Nel suo Strategia e tattica nel gioco degli scacchi, la cui seconda e definitiva edizione fu pubblicata dal benemerito editore Mursia nel 1967, a pp. 240-1 si legge:
“Poiché ogni giocatore ha due alfieri, ognuno di questi, ovviamente, occupa case di colore differente da quelle dell’altro. Per designarli, ciascuno dei due, noi dovremmo dire: «l’alfiere bianco (nero) sulle case bianche»; «l’alfiere bianco (nero) sulle case nere». Il tedesco se la sbriga molto succintamente: «weissfeldrig» per le case bianche; «schwarzfeldrig» per quelle nere. Perciò proporrei, per semplificare anche noi, questi due neologismi, a mo’ dei tedeschi: «campochiaro» e «camposcuro». Eviteremo un mucchio di circonlocuzioni e ci capiremo lo stesso”.
Da allora, alfiere campochiaro e alfiere camposcuro sono espressioni di uso comune nella letteratura scacchistica, anche se nessuno dei due è registrato nei vocabolari, neppure nei Supplementi 2004 e 2009 del Grande Dizionario della Lingua Italiana di S. Battaglia.
Abbiamo una testimonianza esplicita della predilezione di Paoli per le nuove terminologie nel libretto del XIX Torneo di Capodanno (Reggio Emilia 27.XII.1976 – 6.I.1977), a p. 27, dove commenta così un neologismo di Giorgio Porreca, che in realtà poi non ebbe fortuna («guadagno di quantità»):
“L’adotto di corsa: sono sempre contento di arricchire la nomenclatura scacchistica con vocaboli stringati e precisi. Evitano inutili circonlocuzioni. Quindi restiamo d’accordo che “guadagnare la quantità” vorrà dire due FF per Torre netta, cioè senza pedoni”
(ringrazio Riccardo Moneta per questa informazione)
Un altro contributo, minore, di Enrico Paoli alla terminologia scacchistica italiana lo si incontra nel suo Il finale negli scacchi. Studio sistematico, Mursia 1974.
Nei diagrammi delle pp. 407-8, relativi al finale di Donna contro Pedone di Torre o di Alfiere in 7a, sono disegnate delle linee spezzate che delimitano l’area della scacchiera in cui deve trovarsi il Re del bando più forte perché il finale sia vinto e non patto. Tale linea spezzata è denominata «gnomone» da Paoli, che conferisce al termine una nuova accezione, solo in parte coincidente con il significato originario che esso ha in geometria (come rileva lo stesso Paoli, consapevole della piccola forzatura semantica che sta esercitando).
Ma questa proposta non ha avuto la stessa accoglienza e la stessa diffusione della precedente, ed è rimasta circoscritta solo all’autore che l’ha propugnata e a chi ha letto i suoi libri. Per cui, se sentite uno scacchista usare «gnomone» nell’analizzare un finale di Donna contro Pedone in 7a, potete star certi che quel finale lo ha studiato sul manuale di Enrico Paoli!