Morte degli scacchi e delle democrazie
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(Riccardo M.)
La storia è maestra di vita. La storia dei popoli ci insegna che drammi enormi e periodi di pace e stabilità e progresso si sono alternati da sempre nel mondo. La storia presenta corsi e ricorsi, a volte con analogie sorprendenti: è come se gli uomini non ne sapessero cogliere appieno le lezioni e non potessero fare a meno di ricadere nei soliti errori.
[Foto di Gerald Praschl, CC BY-SA 3.0]
Su questo Blog qualcuno citò tempo fa alcune parole di Hegel: “dalla storia impariamo che non impariamo dalla storia”. Triste, ma vero. Le pagine della storia sono segnate in primo luogo dagli accadimenti politici. E’ la politica che guida tutto e determina alti e bassi delle civiltà e delle loro multiformi manifestazioni, economiche, tecnologiche, artistiche, sportive eccetera.
Guardate la storia degli scacchi negli ultimi 150-170 anni, il loro emergere da una parte all’altra del mondo a seconda dello splendere o meno della civiltà in quei luoghi, oppure il loro declino generalizzato. La storia dei popoli e delle civiltà è affascinante, la storia degli scacchi pure. La grande luce negli scacchi la si ebbe, segnatamente in Europa, nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi 10-15 anni del Novecento. Di pari passo con la crescita della Francia, poi in Germania e Centro-Europa, in Inghilterra, negli Stati Uniti. Non a caso erano quelli i luoghi e quelli gli anni del fiorire e poi della grandezza delle democrazie liberali e dello Stato di diritto. Se guardiamo le classifiche e le partite dei primi grandi tornei dell’Ottocento e di quelli del primo quindicennio del Novecento, ci inchiniamo ammirati di fronte ad una vasta, eterogenea e qualificatissima partecipazione.
Poi, per circa tre decenni, ecco inesorabile il declino, il grigiore. Furono pochi i nomi a sopravvivere in giro per il mondo, e dietro di quei pochi (Capablanca, Alekhine, in parte Euwe e qualcun altro) c’era praticamente il vuoto, c’erano mesti figuranti di secondo piano. Bastava un Mir Sultan Khan, umile e sconosciuto servitore indiano, a dar lezioni in giro per l’Europa.
Cosa era accaduto? Che gran parte dell’Europa fra le due guerre mondiali venne attraversata da un fremito di deleterio populismo e nazionalismo, ovvero da quella comune e ricorrente emozione popolare che si esprime principalmente in un astioso risentimento anti-intellettuale e anti-stato, oggi si direbbe anche “anti-casta”. Si tratta di un risentimento per solito prima istigato e poi prontamente cavalcato dalle classi più reazionarie e controriformiste della società politica e che matura leadership carismatiche ed estremiste che portano con loro i germi distruttivi delle democrazie, germi che costituiscono il naturale carburante dei totalitarismi. Quando la presunta, “virtuosa” e univoca, volontà popolare pretende di imporsi al di sopra dei necessari filtri istituzionali e costituzionali, negando la stessa legittimità della dialettica politica democratica, ecco che crolla lo stato di diritto e si spegne (o entra in letargo) la stessa cultura. Possono sopravvivere, anche luminose, alcune nicchie, come accadde per gli scacchi nella Unione Sovietica dagli anni Quaranta, ma per ovvie cause di specifica coercizione assai più che naturali.
E così arrivò a partire dagli anni Venti, in Italia e in Europa, il declino anche negli scacchi, finché un nuovo risorgimento lentamente apparve nella seconda metà dello scorso secolo, fino a rivivere alte nuove vette nell’ultimo quarto del Novecento con una fila di campioni quasi in ogni parte del continente.
Quel buio e quel vuoto negli scacchi degli anni ’20-’30-’40 non è solo una sensazione mia, maturata tanto tempo dopo. Era infatti la stessa identica sensazione che ho casualmente ritrovato leggendo le parole di uno scacchista che li visse direttamente, Giuseppe Stalda, parole apparse nel numero di marzo 1930 del periodico “L’Italia Scacchistica” (anno ottavo dell’era fascista). Un segno che già i contemporanei avevano ben percepito la crisi della cultura scacchistica (e non solo quella) del loro tempo, pur senza saperne, o volerne, mettere a fuoco le cause.

Ma chi era Giuseppe Stalda? Giocatore e teorico italiano (Venezia 1895-1977), fu impiegato presso il Magistrato alle Acque di Venezia. Vinse a Milano nel 1922 e a Venezia, imbattuto, nel 1928. Maestro dal 1931, fu 2° al campionato italiano (Napoli) del 1938 e terzo ancora a Venezia nel 1948. Scrisse vari libri, tra i quali “La partita d’oggi” (1932), “Gli scacchi nel 1946” (1947) e “La partita francese” (1949). Socio del circolo “Carlo Salvioli”, aveva imparato il gioco frequentando in Venezia, ancor prima della Grande Guerra, lo scomparso “Caffè all’Angelo”.
E veniamo a leggere il pensiero di Stalda, scritto nel febbraio 1930 e condensato in un articolo intitolato “Gli scacchi corrono un serio pericolo?”:
“Si tranquillizzino i nostri lettori che il pericolo di cui intendiamo parlare non è quello prospettato da Capablanca e da altri, e cioè che il gioco degli scacchi sia prossimo all’esaurimento e che la “morte per patta” si avvicini a gran passi.
Oh, no! Il gioco degli scacchi non è mai stato così ricco di vita e di possibilità inesplorate come adesso! Basta studiare profondamente qualche partita di Alekhine-Bogoljubov ed in particolare di Nimzowitsch per convincersi che la famosa “morte per patta” non è che uno spettro pauroso sorto nella fantasia di qualche gigante della scacchiera in un momento di profonda malinconia…
…. La tecnica non potrà mai sottomettere il genio. Essa è un’arte che si può imparare, il genio invece è un dono di natura.
Il pericolo di cui parliamo è di natura ben diversa, ma forse più grave ancora. Non è la “morte per patta” che si profila minacciosa sull’orizzonte scacchistico, bensì la morte dei grandi cervelli scacchistici. Ecco il pericolo vero e proprio da cui è minacciato il nobile gioco!
Dobbiamo ora fare una constatazione dolorosa, ma necessaria: la schiera degli eletti va restringendosi e purtroppo la nuovissima generazione non regge il confronto e non può quindi risanguarla.
Basta dare un’occhiata retrospettiva agli avvenimenti dell’ultimo ventennio per convincersi di ciò. Prendiamo, ad esempio, il grandioso torneo di S.Sebastiano 1911, che, all’infuori di Lasker, aveva raccolta tutta la schiera dei fortissimi tra i forti, e cioè: Capablanca, Rubinstein, Vidmar, Marshall, Schlechter, Tarrasch, Nomzowitsch, Spielmann, Bernstein, Maroczy, Duras, Teichmann ecc.. e vedremo che la differenza di classe fra questi 12 colossi era minima, se si eccettua una lieve superiorità dei primi due.
Da allora sono passati vent’anni; Lasker e Tarrasch si sono ritirati dalle tenzoni, e così pure Duras e Bernstein; Schlechter, Janovski e Teichmann sono morti; Maroczy e Marshall non sono che l’ombra di loro stessi e quindi il nostro gioco ha perduto, virtualmente, nove fra i suoi più forti campioni. Sulla breccia non sono rimasti che Capablanca, Rubinstein, Nimzowitsch, Vidmar, Spielmann, i quali in unione al campione mondiale Alekhine, astro sorto nel frattempo, ed a Bogoljubov, sono indubbiamente i sette più forti al mondo.
Chi, fra la nuovissima generazione, può competere e reggere il confronto con essi? Rispondiamo apertamente: Nessuno! Le cinque promesse, Euwe (da taluno profetizzato futuro campione del mondo), Colle, Canal, Samisch e Monticelli hanno alternato successi con insuccessi e non danno per nulla affidamento di poter un giorno rimpiazzare degnamente Alekhine, Capablanca, Nimzowitsch ecc…
Infatti i vincitori dell’ultimo ventennio sono sempre da ricercarsi fra i sette eletti sopra menzionati, ed il Torneo di Sanremo 1930 non ha fatto che ribadire quanto abbiamo detto. Alekhine, Nizowitsch, Rubinstein (sempre loro, eternamente loro!) hanno seminato la strage sul loro cammino.

Come si spiega questo fatto?
E’ fatale legge di natura che allorché in qualsiasi ramo della scienza o dell’arte si sia raggiunto il massimo dello splendore, cominci inesorabilmente la parabola discendente. Gli scacchi, purtroppo, non fanno eccezione alla regola e quindi volenti o nolenti dobbiamo riconoscere che comincia la decadenza della potenzialità scacchistica.
Ritorniamo per un momento al 1910 e vedremo che accanto ai colossi, Lasker, Tarrasch, Schlechter, Maroczy, Janovsky, Teichmann, sorgeva tutta una schiera di nuovi astri luminosissimi e cioè: Capablanca, Rubinstein, Alekhine, Bernstein, Duras, Tartakower, Vidmar, Spielmann e Nimzowitsch.
Ed ora invece chi potrà sostituire questi nove grandi maestri? Si consolino i giocatori di media forza: non è lontano il giorno in cui saranno essi i dominatori della scacchiera! Coloro però che non si consoleranno tanto facilmente sono gli studiosi e gli ammiratori delle profonde concezioni alle quali ci avevano abituato e ci abituano tutt’ora gli attuali giganti della scacchiera.
L’unica considerazione confortante che possiamo fare è che il gioco ha molto progredito e si è assai popolarizzato, dimodoché la forza media dei giocatori è di gran lunga aumentata. La mediocrità tende quindi a farsi strada, ma purtroppo, per dirla col maestro Canal, “quando l’ombre dei pigmei s’allungano, volge il tramonto”.
Il maestro Canal era davvero un saggio! Il maestro Stalda se la cavò comodamente e pilatescamente con un “… è fatale legge di natura …”.
Di fatale in realtà non c’è molto: sono gli uomini a scrivere la storia, anche quando non se ne accorgono (o se ne accorgono troppo tardi). Ma quella “parabola discendente” di cui 88 anni fa scriveva il maestro Stalda pare purtroppo sia di nuovo ricominciata, almeno nella società occidentale, dove parole e valori fondamentali come “esperienza” e “competenza” rischiano in questi giorni di essere spazzati via da certi sentimenti popolari alimentati da una “analfabetizzazione di ritorno” molto diffusa (in Italia oltre i due terzi della popolazione!) e dai lati più ambigui e distruttivi di Internet, con il parallelo, periodico e ingenuo crollo di fiducia nelle classi politiche tradizionali e nei vecchi partiti.
Oggi la complessità delle “cose pubbliche” è quasi fuori dalla comprensione della più parte dei cittadini (specie dei più giovani), il concetto di democrazia viene spesso confuso con quello di uguaglianza ed ogni opinione pare ormai valere come tutte le altre: il vero competente è deriso e bastonato. L’ignoranza dilaga insieme a quella che il giornalista inglese Damian Thompson ha definito “contro-conoscenza”. L’arroganza sfrenata con cui tale ignoranza viene esibita è l’aspetto più evidente e preoccupante per la tenuta stessa delle istituzioni democratiche in Europa e in America.
E negli scacchi? Stessa cosa: la parabola discendente, infatti, sembra iniziata anche qui per l’Europa e l’America, di pari passo con l’involuzione della cultura e il malessere delle democrazie. Basta prendere la classifica Elo al 18 febbraio 2018 e constatare che: escludendo i cittadini “immigrati” (come Giri, So e Nakamura) e la Russia, che da sempre ha fatto storia a sé, appena 6 europei sono presenti fra i primi 30 del mondo (Carlsen n.1, Vachier-Lagrave n.6, i polacchi Wojtaszek e Duda n. 22 e n.27, poi Topalov e Navara), e neppure uno dall’intero continente americano (se vogliamo escludere Nakamura che vive negli Stati Uniti dall’età di due anni).
Cosa diceva il maestro Esteban Canal? “Quando l’ombre dei pigmei s’allungano, volge il tramonto”. Tempi bui si avvicinano.
D’accordissimo sulla situazione delle democrazie occidentali, però il calo europeo/americano è anche, soprattutto?, dovuto all’entrata in gioco dell’Asia (che numericamente ci sovrasta), cosa impensabile solo quaranta anni fa. E non mi pare che in Asia la democrazia sia molto aumentata. Poi non è chiaro dove mettere Armenia e Azerbaijan, che sono spesso considerate “europee”. Nakamura è comunque mezzo americano (la madre). Noto anche che hai dimenticato di citare “he who must not be named” 🙂
Marco, grazie.Troppe cose devo aver dimenticato.
Si potrebbero scrivere libri su questo argomento. E tanto peculiari sono le caratteristiche di ogni epoca e di ogni Paese e di ogni attività umana e regime politico che è quasi impossibile, di certo azzardato, farne un sintesi qui per gli scacchi (come ho provato io) applicandovi un paio di principi.
Comunque aggiungo qualche precisazione suggeritami dal tuo intervento.
Nelle prime righe ho scritto che sono pace, stabilità e progresso a portare in alto un Paese e a far emergere in ogni campo della cultura e degli sport (quindi anche negli scacchi) quanto di buono possono esprimere i suoi cittadini.
E pace, stabilità e progresso per solito procedono di pari passo con l’efficienza delle strutture democratiche.
Ho anche scritto che in certe circostanze (vedi URSS) l’affermarsi di certe peculiari attività è stato dovuto invece soprattutto alla forte spinta in quella direzione (vedi scacchi) da parte del potere politico.
E non c’è dubbio che di pace/stabilità/progresso hanno goduto in questi ultimi anni India e Cina, il che ha consentito loro di portare le rispettive economie al posto n.7 e n.2 del mondo, soppiantando vari Paesi europei.
Se oggi vediamo giocatori cinesi e indiani affermarsi per il mondo in vari sport è più un fattore di fortissima crescita dell’economia di quei due Paesi che un semplice fattore numerico di popolazione: pare che ogni anno 16 milioni di cinesi stiano uscendo dal tunnel della povertà!
La questione dell’avvio di una “democraticità” in Cina è poi piuttosto complessa, ma è innegabile che il Paese non sia più quello di Mao, sia più aperto alla collaborazione internazionale e che non sia oggi paragonabile al triste momento vissuto negli anni Trenta da Germania, Italia ed altri Paesi d’Europa.
La democraticità di un Paese è tuttavia sempre la condizione principale per la sostenibilità di lungo periodo di un effettivo progresso.
Viceversa, il riemergere di egoismi nazionali e populismi, come in questi anni in Europa e in America, è sempre il primo passo nella direzione opposta.