Roberto Cotroneo e le ossessioni di Donald Byrne
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(Adolivio Capece)
Un giorno di vent’anni fa il mio telefono squillò e quando risposi rimasi quasi incredulo: “Buongiorno Adolivio, sono Roberto Cotroneo; ho avuto il tuo numero da … (e qui fece il nome di un mio amico giornalista). Mi serve una tua consulenza per un romanzo che sto scrivendo: sai, vorrei essere sicuro di non scrivere cose sbagliate.”
Sapevo di Roberto Cotroneo come scrittore ma nell’occasione scoprii che è anche musicista e appassionato di scacchi.
Il romanzo che stava scrivendo è ‘Per un attimo immenso ho dimenticato il mio nome’, che sarebbe poi stato edito da Mondadori nel 2002.
Cotroneo raccontava che Luis, il protagonista, imbarcatosi su una nave, incontrava casualmente lo scacchista statunitense Donald Byrne (1930-1976, il più giovane e formalmente il meno bravo dei due fratelli, dato che arrivò solo al titolo di ‘Maestro Internazionale’, mentre il fratello Robert, 1928-2013, arrivò al titolo di ‘Grande Maestro).
Donald era ossessionato da Bobby Fischer e dalla sconfitta che Bobby gli aveva inflitto a New York nel 1956 e con Luis si sfogò rivivendo e raccontando la partita.
Naturalmente fui ben felice della richiesta ma devo dire che aveva ipotizzato in pratica quasi tutto correttamente.
Va ricordato che la partita fece il giro del mondo ed impose Fischer alla attenzione dei critici. Da molti venne definita ‘la partita del secolo’. Tuttavia Bobby non la inserì nel suo libro “60 partite da ricordare”, dove avrebbe fatto sicuramente la sua bella figura.
Il motivo dimostra la rigidità e la coerenza di Fischer: nel volume aveva deciso di inserire le partite giocate tra il 1957 e il 1967 e quella con Byrne, come detto, era stata giocata nel 1956 …
Stralciamo dal romanzo il paragrafo in cui Luis, il protagonista, racconta l’incontro con Donald Byrne “in una sera calda e umida, ancorati davanti a Tangeri”.
‘Conosci Bobby Fischer?’ mi chiese.
Lo conoscevo, come tutti. Giocatore geniale, controverso, imprevedibile, con un modo di giocare che non aveva nessuno.
Byrne cominciò a parlare lentamente. ‘Io ho giocato una sola volta con Bobby Fischer. Lo sai quanti anni aveva?’ /…/ ‘Aveva tredici anni Bobby Fischer.’
Pensai alle foto che avevo visto di Bobby Fischer, a quel modo che aveva di sedersi davanti alla scacchiera: inclinato da una parte, l’aria severa, concentrata.
Lo avevo guardato qualche volta, immortalato da foto un poco buie, perché Fischer detestava la luce e soprattutto pensava che l’illuminazione non fosse mai quella giusta per giocare una buona partita.
‘Fischer aveva tredici anni, era il 1956, a New York: biondo, quasi sperduto.
Il mio amico Reuben Fine aveva pensato di guarirlo dalla ossessione degli scacchi. Fine era un grande giocatore ed un grande psicoanalista. Ha scritto dei libri importanti.’
Allora non sapevo chi fosse Fine, e di lui so poco anche oggi. La madre di Fischer aveva chiesto aiuto a quell’uomo perché il bambino non si staccava mai dalla scacchiera: era un gorgo forte, intenso.
‘No, tu suoni il violino e queste cose non le sai. Io ero un gran maestro.
Quella era la prima partita del torneo.
Mi capitò quel tredicenne /…/ ricordo che il ragazzo aveva una faccia divisa in due, la parte di sopra era mobile, gli occhi vivi, i capelli risistemati di continuo.
Sotto no, la bocca era ferma, la mascella rigida, pareva una statua di sale.
Però se ci penso oggi era soltanto un ragazzino e quel pomeriggio le nuvole sembravano voler scendere sull’Hudson fino a mascherarlo.
Io ero di spalle alla vetrata, lui prendeva la luce di fronte, e sembrava infastidito, ma era un ragazzino pallido e quelle nuvole, quei riflessi del cielo mossi dal vento, gli attraversavano lo sguardo come un teatro di ombre cinesi sul lenzuolo.’
‘Fine diceva che Fischer non sopportava per nulla di perdere. Io non sono mai riuscito a tollerare quella sconfitta. Non ci riuscii a tal punto che quella partita me la portai fino alla mossa finale. Speravo in un suo errore. Mi chiedevo ‘Possibile che questo ragazzino non sbagli?’. Non potevo abbandonare alla diciottesima mossa.
Ma tanto lì lo sapevo, certo che lo sapevo: avevo perso. E avevo perso con quel ragazzino che aveva sacrificato la sua Regina. Lo capisci, vero?
La Regina si era fatto prendere. E io della mia non sapevo che farmene.
Lo guardai, in quell’attimo nel suo viso non c’era nulla, non c’era emozione, le nuvole, il cielo, quel blu del cielo di New York quando il pomeriggio stenta a terminare, lo attraversava come un riflesso tra i tanti.
Io gli avevo preso tre Pedoni, un Cavallo, una Torre e la Regina. E lui alla fine mi aveva preso due Torri, due Alfieri, un Cavallo e cinque Pedoni.’ /…/
‘Bobby giocò con il Nero. Una partita d’attacco. Era il più giovane, il più inesperto dei due. Io ero famoso. E lui giocava con il nero.
La logica diceva che avrebbe dovuto difendersi. Giocò la Difesa Grunfeld, che arriva a proteggere il Re come fosse una roccaforte inespugnabile. Ma era un inganno.
In verità Bobby sapeva che avrebbe giocato una partita d’attacco e che avrebbe stravolto tutte le regole del gioco. Io mossi l’Alfiere in g5. E nel suo viso mi apparve un lampo, diabolico quasi, capì la mia esitazione e in quella esitazione vide la mia debolezza. Sulla scacchiera i miei pezzi erano messi male.
Non potevo più farcela, avrei dovuto muovere diversamente.
E lui fu rapidissimo, e sul suo viso si accese una luce.’

D.Byrne – Fischer
Difesa Grunfeld
Torneo Rosenwald, New York, 1956
Luis incontra Byrne altre volte sulla nave e sempre ci sono accenni alla partita con Fischer.
Un paio di paragrafi in particolare risultano più lunghi degli altri.
Vediamo il primo: è sempre Luis che racconta.
‘Lo ricordo in un preciso pomeriggio. Entrai nel bar /…/ Non c’era nessuno in quel momento /…/ solo lui, la scacchiera e un quaderno su cui scriveva le mosse della partita. Non entrai subito, gli guardai le mani, la sinistra era sospesa, indecisa su cosa fare, ma era solo un attimo, poi prese il Cavallo e lo portò in un punto della scacchiera. /…/
‘Oggi ho perso ancora, Luis’, disse Byrne senza voltarsi per guardarmi.
‘Con Fischer?’ risposi rimanendo sulla porta.
‘Ho perso ancora con quello che io credo possa essere Bobby Fischer. Ho perso alla ventiseiesima mossa. Ma ora lui è stanco, dice che non torna per un po’. Non ci credo. Ritornerà, puoi giurarci, lo rivedrò la, sullo schermo, a rifiutare tutte le partite finché non arrivo io. Ostinato, è sempre stato ostinato.’
Era curioso il modo di fare di Byrne, era curioso come tutta la sua vita. /…/
Quando cominciò a dire della ventiseiesima mossa era già in un mondo suo, guardava la scacchiera, sembrava essersi dimenticato di me, e non si aspettava risposte. /…/
Gli avrei voluto chiedere di Bobby Fischer. Ma bastava aspettare e me lo avrebbe detto lui che occhi aveva visto di Bobby Fischer quel giorno a New York, quando l’acqua del fiume mostrava riflessi metallici.

‘Era un ragazzo, Bob. Erano gli occhi di un ragazzo abituato a fissare un punto preciso della sua esistenza, che aveva otto caselle per lato e trentadue pezzi.
Quegli occhi non avevano scatti neppure quando sapeva di vincere, quando era ormai sicuro. Ora mi vedi qui, sempre davanti alla scacchiera, mi vedi qui e pensi: Byrne è un giocatore, ha giocato una vita intera e si è giocato una vita intera. E sbaglieresti. Non ho passato la mia vita a giocare a scacchi. /…/
Un giorno qualcuno mi ha detto che potevo giocare a scacchi con il computer e che potevo averne uno. Non so in quale porto stavamo. So che funzionava davvero, io giocavo con della gente che non sapevo chi fosse. Non lo sapevo e non c’era il tempo di saperlo. Sai Luis, ovvio che vincevo con tutti. Erano inesperti e lasciai perdere.
Però tirai fuori la mia scacchiera vera, non quella che appare sullo schermo del computer. E ho cominciato a ricordare delle partite antiche, finché poi è successa quella cosa.
Era di notte /…/ mi viene da riaccendere quella macchina con lo schermo e tutto il resto. Vado sul sito dove si gioca a scacchi. E metto il mio nome, D punto Byrne. Aspetto solo un’ora e un certo BF mi chiede se voglio giocare una partita.
Io rispondo che sì, convinto che non va oltre la ventesima mossa. Perdo malissimo. Poi nella striscia di sotto del video, quella dove si può scrivere, mi arriva una domanda. Mi chiede se ero a New York proprio il giorno in cui giocai con Bobby Fischer.
E’ un giorno che non si dimentica, Luis, lo capisci, anche se sono passati decenni.
E allora capisco che quel BF non è un uomo qualunque, che forse è lui.
In quel momento, nel momento in cui sto per chiederglielo, salta tutto.
Il collegamento, il video. Tutto, capisci. Per dieci giorni non sono più riuscito a collegarmi…’
Pagine più avanti un altro paragrafo scacchistico:
‘Ricordo a memoria mille partite di scacchi’ disse Byrne, ‘ma non riesco a ricordarmi la musica. Meglio, vorrei dirti, me la ricordo capovolta.’
‘Come con gli specchi e gli scacchi’ risposi.
‘Niente, forse è un caso, ma la sua scacchiera sta sempre davanti ad uno specchio. /…/ Qualche giorno fa avevo la sensazione che lui prima di muovere guardasse più lo specchio che la scacchiera, come se quel riflesso fosse un suo avversario.’
/…/ ‘Hai mai visto cosa accade quando metti una scacchiera davanti a uno specchio? /…/ Ho vissuto per un anno in un posto dove si giocava a scacchi tutto il giorno. Sono arrivato lì dall’America perché inseguivo una leggenda. Quella di Milo Temesvar. /…/
Tra gli scacchisti si parlava di lui. Se ne parlava molto per un libro che ho potuto leggere in casa di un amico e che non ho mai ritrovato: Sull’uso degli specchi nel gioco degli scacchi, si intitolava. Bene, se tu osservi una partita a scacchi allo specchio capisci il profondo significato di questo gioco.
Tutto è invertito. Ed è come vedere il mondo attraverso una logica capovolta.
No, lo specchio è un modo di dialogare con i pezzi. Anche loro lo sanno, anche loro si specchiano’ continuò Byrne.
C’era una partita iniziata /…/ Byrne mosse un pezzo. /…/ Guardai la scacchiera e ancora Byrne, e solo in quel momento mi accorsi che Byrne, allo specchio, giocava con se stesso. I suoi pezzi bianchi, riflessi, stavano sul lato opposto della scacchiera; e siccome lo specchio era vecchio e leggermente annerito, l’immagine riflessa di Byrne era sfumata, vaga, poteva assomigliare a quella di un altro.
Byrne giocava con il bianco. Il suo fantomatico avversario, forse un Bobby Fischer che aveva giocato con lui la sera prima, aveva il nero. Il nero sullo specchio stava dalla parte di Byrne. Il bianco era il suo avversario.
‘Byrne, gli dissi stupito, ma lei gioca contro se stesso.’
Questa volta si voltò. ‘No, gioco contro un’ombra.’ /…/ ‘Guarda bene, ti sembra la stessa partita? Il Cavallo in c3 sullo specchio diventa un Cavallo in f6, capisci cosa vuol dire?’
‘E’ capovolto.’
‘Sì’, aggiunse Byrne. ‘Solo che gli scacchi sono un gioco fatto di simmetrie. Le Torri, i Cavalli e gli Alfieri hanno delle posizioni simmetriche. Solo la Regina e il Re spezzano la simmetria. Ora quel Cavallo che tu vedi sullo specchio non è lo stesso Cavallo capovolto dal riflesso, è l’altro Cavallo.
Se dovessi dirtelo con un linguaggio degli scacchi: quello è il Cavallo in ‘f’, non il Cavallo in ‘c’, capisci? /…/ Gli specchi con gli scacchi non si comportano come con tutti gli altri oggetti. Gli danno un valore. Non è lo stesso pezzo, Luis, è un altro pezzo. Questo aveva scritto Temesvar in quel libro.’ /…/
‘E poi lei l’ha trovato Temesvar?’
‘Questa è una bella domanda. L’ho cercato in molti posti. Dovevo partire per Buenos Aires perché mi avevano detto che viveva ancora lì. Ma poi mi fecero cambiare idea. /…/ Quel libro sugli specchi e sugli scacchi non sono mai riuscito a ritrovarlo.’