Uno Scacchista

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[R] Venezia salvata dagli scacchi

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Venezia - Punta della Salute

R I S T A M P A

(Riccardo M.)
Nel primo secolo a.C. il nome di “Venetia” indicava una regione dell’Impero Romano che si estendeva fra l’Istria, il Friuli, il Veneto e il Trentino. Nell’anno 452 d.C. uno dei condottieri più abili e spregiudicati di quel secolo, Attila (406-453 d.C.), re degli Unni, invase l’Italia con le sue terribili truppe, mezze germaniche e mezze turco-mongoliche. Rase a zero Aquileia, che era lo snodo principale italico tra Occidente e Oriente, occupò Pavia e Milano, che non gli oppose alcuna resistenza, saccheggiò Padova.

[Foto di Riccardo Moneta]

A quel tempo le bianche strisce di sabbia che oggi chiamano lidi e che proteggevano la laguna veneta erano abitate (già da qualche secolo) da “indigeni”, per lo più barcaioli e pescatori che “s’impongono alla nostra attenzione come i primi veneziani: i primi che trovarono il modo di sopravvivere in quella mescolanza di fango, acqua e sabbia tipica delle lagune” (in: “Venice. A Maritime Republic”, Frederic C.Lane, Johns Hopkins University Press, 1973).

Era gente esperta nell’arte di navigare le lagune, talune delle quali si venivano trasformando in terraferma grazie ai depositi fluviali, mentre un aumento generale del livello marino, conseguenza dello scioglimento del ghiaccio delle calotte polari, rendeva sempre più agevole la navigazione su ogni tipo di imbarcazione. Tra l’altro in epoca romana accadeva che i lidi e le isole più esterne, ben protetti dalle retrostanti lagune, “venivano usati come luoghi di soggiorno estivo dagli abitanti facoltosi delle vicine città romane di terraferma, quali Padova e Aquileia”.

Fu proprio al tempo della discesa degli Unni che iniziò una decisiva migrazione delle popolazioni della terraferma verso la laguna, migrazione che incentivò l’attività marinara e di pesca e le saline. Tale fenomeno non mutò in un primo tempo la struttura sociale della laguna, che invece fu poi modificata profondamente dalle invasioni dei Longobardi del 568, in quanto queste ultime provocarono il trasferimento dalla terraferma alla laguna di molte famiglie facoltose, insieme ai loro beni e ai loro dipendenti.

Queste s’indirizzarono verso Chioggia, Cavarzere, Malamocco, Grado, Torcello e poi soprattutto verso “quel grappolo di isolotti il maggiore dei quali era detto Rivoalto (ossia riva alta), il futuro Rialto”. Nasceva così Venezia, il miracolo di Venezia, un luogo e una comunità che fin dall’origine si ritenne indipendente sia dal regno longobardo sia dalle autorità romano-bizantine che avevano sede in Ravenna.

Il doge, massima autorità della Repubblica Veneziana, riceveva onorificenze ed influenze soprattutto dall’Impero bizantino, tanto che nel 751, quando i Longobardi conquistarono Ravenna, Venezia era ormai considerata come parte dell’Impero d’Oriente, che ormai ne aveva profondamente influenzato arte e istituzioni.

La Repubblica di Venezia ebbe lunghissima vita: mille anni, nessun’altra repubblica al mondo ha mai resistito ininterrottamente così tanto. Un record non casuale. I politologi di oggi dovrebbero approfondire bene le ragioni della sua longevità, guardando soprattutto al mirabile funzionamento delle sue istituzioni, dalle quali avremmo ancora molto da imparare.

La grandezza di Venezia, come nel 1520 scriveva Gaspare Contarini, non dipendeva tanto dalla sua forza economica o dalla sua flotta, quanto da una perfetta e aristotelica mescolanza di forme costituzionali, che contenevano alcuni elementi di governo della monarchia, alcuni del governo dei “Pochi”, altri del governo dei “Molti”, “evitando la concentrazione di potere in singoli individui, ma nello stesso tempo mantenendo il potere in mani ben esperte” (Lane). Insomma, la Repubblica di Venezia era per fortuna ben lontana dai pericoli delle derive populistiche affacciatesi in Europa nel ventesimo secolo.

Ma ora, detto ciò intorno alle origini di Venezia, facciamo un passo indietro, ovvero su Attila e sulla sua rapida e temuta occupazione dell’intera laguna veneta del quinto secolo. Accadde un giorno che le scatenate truppe unniche di Attila arrestarono la loro avanzata e tornarono indietro. Perché? Nessuno ha saputo mai il perché.

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Fiorirono le leggende. Tra queste, quella che vuole sia stato Papa Leone I a bloccare Attila in località Roncoferraro (nome odierno), mostrandogli il crocifisso. Più probabilmente il condottiero unno, il cui esercito era allo stremo delle forze e decimato dalle malattie, si accontentò a quel punto dei numerosi riscatti, bottini e ori già rastrellati.

Qualche mese dopo Attila fu trovato morto. Ed anche la sua fine resta avvolta nel mistero. Per alcuni fu ucciso a coltellate da una delle mogli, Gudrun, per altri morì soffocato durante un banchetto.

Pertanto ne diamo la “nostra” fantastica versione, o variante, che non pensiamo sia troppo meno credibile della leggenda del crocifisso di Leone I. E perciò richiamiamo l’opera di un insegnante di storia e filosofia, tal Giosia Invernizzi, “il Risorgimento” (Vallardi 1878), nella quale si citavano i versi di un poemetto riportato in un precedente lavoro di Alessandro D’Ancona, “Attila flagellum dei” (ed.Nistri, Pisa 1864).

L’Invernizzi ci parla delle gesta di Attila, che mette a ferro e fuoco Concordia, Aquileia, Oderzo, Trevigi, Altino, e poi “drizza la pagana schiera” verso Padova, dove s’era rifugiato il re cristiano Giano. Re Giano rifiuta d’arrendersi “e intanto riceve avviso che Guglielmo Vicentino, Accarino conte d’Este e Marcello da Feltre vengono con tremila armati in suo soccorso, e che altri seimila cristiani guidati da Capitello muovono in sua difesa da Costantinopoli. Il popolo pagano è preso tra l’incudine e il martello dagli assediati e dai nuovi armati che vengono da fuori. Attila è sempre dominato dal feroce disegno di uccider Giano, e un giorno si decide finalmente di mandarlo ad effetto. Scambiati i propri abiti regali col cappello, la tasca e il bordone di un pellegrino che trovavasi nel campo, si mette sotto le vesti un coltello avvelenato ed entra in Rimini.

“Così per la città limosinando,
Parea Bernardo con le sue man gionte,
Giunse al Palazzo dove che giocando
Stava re Giano e il cavalier d’Almonte”.

Il giuoco era quello degli scacchi. Non trovando via buona per ferire re Giano, perché questi era armato da capo a piedi, Attila si piega sopra il bordone, e sta silenziosamente ad osservare, finché vedendo che re Giano stava per lasciarsi sfuggire un bel tratto, scappa fuori con un’osservazione in ungaresco stile”.

Qui l’Invernizzi tralascia forse di trascrivere i versi scacchisticamente più significativi, che riprendo dal D’Ancona (op.cit., pag. 49, rif. I.S. n. 511 pag.152):

“Potendo allor re Giano un tratto fare
Che tal non intraviene in giochi mille,
Non vide, e una pedina volea dare;
Attila allora in ungaresco stile
A questa guisa incominciò a parlare:
“Chi ha l’Alfiere non lo tenga a vile,
Che scacco rocco li può dar al tutto” “.

Torniamo all’Invernizzi (e teniamo conto che l’abilità di Attila negli scacchi era, secondo alcuni, ben nota):

“Re Giano insospettito, guarda fiso il pellegrino “che avea proprio del sguardo cagnino”, ma finge non curarsene, e continua a giuocare.

“A posta fece lui un scapezzone;
Attila forte rise e nella faccia
Videsi ch’era di canina raccia”.

Giano allora ancor più insospettito, guarda meglio il pellegrino, s’accorge d’un orecchio che gli manca e finalmente ravvisa in lui Attila. Questi sulle prime nega, poi vedendo inutile il negare,

“Sen sta con china faccia
Perdon chiedendo con aperte braccia”

Ma il pregare e il supplicare è invano. Giano gli spicca la testa dal busto e la manda al campo nemico …”

…. Dopo alcuno tempo re Giano muore, e suo figlio fonda un monastero:

“In Rivoalto sopra un certo porto
San Zaccaria il monastero si appella
Situato dentro di Venezia bella”

Così finisce questo Poemetto, reliquia delle tradizioni e delle leggende popolari intorno ad Attila e a Venezia, materia epica che la povera arte del cantor popolano lasciò informe e grezza. Tuttavia questi ruvidi canti sono le voci del sentimento nazionale. La tradizione latina, alterando la storia, si vendica dei barbari invasori d’Italia. Dopo stragi e devastazioni spaventevoli, ecco gli Unni costretti a fuggire e a disperdersi d’innanzi alle armi latine, salvatrici di Roma e della civiltà romana. I ricordi delle sanguinose vittorie straniere sono accompagnati da quelle di altrettante vittorie nazionali. Dalle ruine di Aquileia, di Concordia e d’Altino, ecco sorgere Venezia, gloriosa regina dell’Adriatico …. L’Italia, e non le patrie sponde del Tibisco, dev’essere la tomba di Attila. Leone I, il vecchio e venerando pontefice, …. è scomparso dalla tradizione…. così il genio latino e nazionale, personificato in Giano, si vendicava del tremendo invasore”.

Insomma, Invernizzi ha ragione: la storia la scrivono cronisti, narratori, leggende di popoli e religioni, la scrive o la interpreta perfino il sentimento popolare. Sentimenti non ovunque identici. L’Attila sanguinario “Flagello di Dio”, “figlio di un cane”, colui che “dove passa, più non cresce filo d’erba”, è invece per le popolazioni germaniche e ungheresi un grande capo e condottiero, una specie di eroe proto-nazionale, creatore di un enorme impero che si estese, e poi rapidamente si dissolse, dalla Francia all’attuale Ucraina. E infatti nella cultura magiara è tuttora assai diffuso il nome di Attila.

Per la verità i versi trascritti dal D’Ancona non sono che la traduzione di versi in latino tramandati da un manoscritto del 1308 conservato nella Biblioteca Civica di Verona.

Chi volesse saperne di più (e meglio) sulla intera storia, qui sommariamente riportata, può oggi far riferimento al recente volume “Hystoria Atile dicti flagellum Dei, il libro della nascita di Venezia, dal manoscritto 1308 della Biblioteca Civica di Verona” (Sismel edizioni del Galluzzo, Firenze 2016), curato dalla dottoressa Elena Necchi, filologa e storica, autrice di numerose pubblicazioni, esperta di storia medioevale in particolare dell’area padana, e insegnante presso l’Università di Pavia.

Non mi resta che augurare lunga vita anche alla città di Venezia, il cui tessuto sociale e il cui futuro è purtroppo messo a repentaglio (oltre che dalla “acqua alta”) dal calo ininterrotto della popolazione residente: 35.000 appena sono oggi i veneziani residenti. Pochissimi. Basteranno per evitare che la città non si trasformi irrimediabilmente in un parco giochi e soggiorno per turisti?

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