Uno Scacchista

Annotazioni, Spigolature, Punti di vista e altro da un appassionato di cose scacchistiche

Il gioco del prigioniero

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(Riccardo Moneta)
Esattamente trent’anni fa, nel gennaio del 1990, la casa editrice Rizzoli pubblicava un romanzo di Giorgio Calcagno: “il gioco del prigioniero”. Giorgio Calcagno (Almese, 9.9.1929 – S.Benedetto del Tronto, 26.8.2004) era uno scrittore, giornalista e critico letterario piemontese, della Valsusa. Porta oggi il suo nome la Biblioteca civica di Almese, il comune dove nacque. Tuttavia le sue origini erano liguri; ligure è infatti il suo cognome, lo stesso che (quale coincidenza!) aveva mia nonna materna, appunto genovese (di Cogoleto).

Calcagno, laureatosi a Genova in “Lettere moderne”, lavorò per il “Popolo Nuovo” e per “Radiocorriere TV”, poi dal 1962 per “La Stampa”, curando per tredici anni le pagine degli spettacoli e per altri tredici il bellissimo supplemento settimanale “Tuttolibri” (che vantava firme illustri quali quelle di Primo Levi, Mario Soldati, Norberto Bobbio e Umberto Eco). Esordì come autore nel 1969 con “Il Vangelo secondo gli altri”.

Nello scorso mese di agosto, in ricorrenza dei 15 anni dalla scomparsa dello scrittore, l’Associazione culturale “La luna” ha organizzato un evento a lui dedicato in Cupra Marittima (Marche), località in cui Giorgio Calcagno e la moglie erano soliti trascorrere le vacanze estive. Nell’occasione, presente il figlio Oliviero, è stato presentato un quaderno monografico su Giorgio, uscito in maggio 2019 e contenente quattro suoi componimenti inediti.

Mi bastò trent’anni fa, per decidere di acquistare immediatamente “il gioco del prigioniero”, guardare la copertina e leggere il contenuto del risvolto di copertina, che era questo:

“Un prestigioso uomo politico sequestrato da un gruppo di terroristi, il suo carceriere, una sperduta casa-prigione e una scacchiera. Ecco i protagonisti, l’ambiente e l’elemento fondamentale dai quali prende spunto questo sorprendente romanzo. Sequestrato e sequestratore sono tagliati fuori dal resto del mondo, immersi, avvolti e sovrastati da una solitudine compatta e impalpabile, interrotta una volta alla settimana (ma per brevi istanti) dalla fugace visita di appartenenti all’organizzazione terroristica incaricati di rifornire i due segregati di cibo e vestiario. Ed è in questa atmosfera rarefatta, allucinata e soffocante che i due giocano una partita a scacchi interminabile e decisiva … E così, in questa casa dove i silenzi e le cose non dette pesano più delle parole, si produce sulla scacchiera una straordinaria mutazione: non sono più, infatti, i pedoni, le torri, gli alfieri ad essere mossi per cercare di intrappolare senza scampo il re avversario; al posto di pezzi senza volto, muti e impassibili nel loro gioco eterno e spietato, si sostituiscono a poco a poco i due protagonisti, impegnati in una battaglia sottile, perversa, senza esclusione di colpi e la cui posta, per ognuno, è la propria identità e autoaffermazione. Una partita che dura a lungo, 7 anni, il tempo della prigionia, sino a una soluzione sorprendente in cui il gioco delle parti si rivela in tutto il suo tragico cinismo, dove chi sembrava aver vinto perde, e chi sembrava aver perso vince”.

Giorgio Calcagno

La migliore e più positiva recensione del romanzo di Calcagno fu probabilmente quella di Stefano Giovanardi (1949-2012), che è stato critico letterario e docente di letteratura italiana moderna alle Università “La Sapienza” di Roma, poi a Pavia e poi a quella del Molise, e che fu membro delle giurie dei più importanti premi letterari italiani, tra i quali lo “Strega”. Tale recensione apparve nel febbraio del 1990 sul quotidiano “La Repubblica”, col titolo “Solo gli scacchi parlano”. Mi piace riportarla qui integralmente:

“Devo confessare che dopo aver letto il risvolto di copertina del romanzo di Giorgio Calcagno (Il gioco del prigioniero, Rizzoli, pagg. 155, lire 28.000), non ho saputo reprimere una sensazione di sazietà: l’ennesima storia di terroristi, di sequestrati eccellenti, di vischiosi legami fra vittima e carnefice, di oscure trame che non saranno mai chiarite… Ma già alle prime pagine quella sensazione era sparita. Fin dall’ inizio infatti l’io narrante (un terrorista, appunto, che fa da carceriere a un uomo politico importantissimo in un romito casolare dell’ Appennino) ci informa che il sequestro dura da otto anni, gli ultimi sette dei quali trascorsi dai due in assoluta solitudine, interrotta solo dalle brevi visite di altri terroristi per i rifornimenti o per inutili e stanchi interrogatori al sequestrato: una situazione evidentemente abnorme e decisamente surreale, che subito proietta sul contesto una luce da finzione metafisica.

Non che, beninteso, personaggi e situazioni non dispongano di un loro spessore reale: il carceriere, anzi, rivela un vissuto quanto mai ordinario, con adolescenza inquieta, fratello perbene e persino una figura paterna da odiare e amare; e l’uomo politico conserva in una busta una foto con un gruppo di famiglia. Ma tali realtà risultano come offuscate, quasi obliterate, dal gioco perverso e assoluto che si instaura fra i due. L’uno e l’altro campioni di scacchi, si sfidano in interminabili partite che con l’andar del tempo diventano un veicolo privilegiato ed esclusivo di comunicazione: una comunicazione fortemente ambigua e allusiva, naturalmente, e tuttavia l’unica in qualche modo efficace in una situazione che non offre all’ osservazione il benché minimo elemento di riconoscibilità.

Non so dove sono, dichiara il protagonista, non so perché ci sono e, fra poco, non saprò più da quanto ci sono. Alla minacciosa impenetrabilità della realtà circostante (il giovane carceriere era stato condotto bendato al casolare dai suoi compagni, e di lì non poteva ovviamente muoversi) fa come da eco l’impenetrabilità del diaframma psichico che lo separa dalla sua vittima e che solo gli scacchi sembrano di tanto in tanto rendere meno opaco. Il mondo, d’ altra parte, arriva in quella cellula segregata con messaggi oscuri e spiazzati: i giornali, i silenzi dei compagni in visita, le poche e misteriose parole pronunciate, persino gli eventi apparentemente casuali, sembrano espressione di un codice di cui si sia fatalmente smarrita la chiave di decifrazione.

Al di là degli scacchi, c’ è solo il non-senso: e infatti quando il prigioniero comincia a parlare, fingendo di farlo nel sonno, fornisce al suo coabitante delle vere e proprie crittografie, che il giovane si danna per risolvere; e ogni volta che, dopo molti sforzi, ci riesce, il risultato è invariabilmente deludente: per tre volte sono usciti vecchi titoli di giornale, poi un versetto del “De profundis”, poi … un’intera quartina della “Vispa Teresa”.

Il vero dramma che Calcagno mette in scena, insomma, sembra non essere tanto la vicenda tutta fisica del sequestro e della segregazione, quanto una disperante condizione conoscitiva: quella dell’inadeguatezza della parola a fornire un senso al mondo, e quindi il tramonto del privilegio demiurgico dell’individuo nei confronti della realtà. Cos’altro è, del resto, quel colpo di scena finale così accortamente preparato, se non la sanzione quasi allegorica dell’inconsistenza della nozione di individuo, e del definitivo annegamento della stessa identità personale nel gran mare metafisico del non-conoscibile?

Non rivelerò, naturalmente, il colpo di scena, sebbene sia convinto che potrei farlo senza nulla togliere al diritto alla suspense da parte del lettore: “il gioco del prigioniero” non è infatti un meccanismo interamente costruito in vista della sorpresa finale; al contrario, il senso di attesa si rinnova capitolo per capitolo, ed è indotto non tanto dallo scioglimento della vicenda (che anzi si presenta subito immobile e senza sbocchi), quanto dai tentativi di decifrazione del reale da parte del carceriere (le crittografie dell’ uomo politico, ma anche la reale natura di alcuni personaggi, l’identificazione di amici e nemici, persino il senso dell’ avvicendarsi della parola d’ ordine, o quello del codice cifrato usato per le comunicazioni via radio).

Il thrilling, insomma, scaturisce quasi per intero dalle continue auto-interrogazioni del protagonista (e con lui del lettore) su un senso complessivo che resta inaccessibile, e poco importa, allora, che il pretesto sia offerto dal terrorismo: tutto è buono, verrebbe da pensare, per dar corpo allo scacco del pensiero e della parola nella realtà contemporanea. Ed è lì, impietosamente lì, che punta l’apologo”.

Un grande scrittore è stato Giorgio Calcagno. Ed è un romanzo certamente da riscoprire “il gioco del prigioniero”. Un romanzo che all’epoca non ottenne il successo di pubblico che avrebbe meritato (pur avendo vinto il super-premio “Grinzane Cavour 1991”), forse anche perché non indulgeva in espressioni e riferimenti di natura politica o sociologica, che in quegli anni parevano essenziali per ricevere l’interesse e il favore di una certa critica, di qualsiasi parte fosse. Un romanzo che ancor oggi mi appare moderno, nelle sue componenti allegoriche e psicologiche, ed insieme avvolto come ostaggio del suo tempo, un tempo in cui le solitudini e le prigionie non erano mitigate dai vocii dei mass media e dalla tecnologia che, implacabile e attesa, oggi riesce a trasportarli ovunque e a chiunque.

La scacchiera, la partita a scacchi, le pagine che scandiscono immaginarie e temute mosse, l’esito della partita, l’attesa, sono “la grande metafora della vita e della morte”, in un mutevole e imperscrutabile scenario in cui, come scrive Calcagno verso le ultime pagine:

“…. nel progressivo raffinamento del gioco, ci siamo trasformati in simboli, che possiamo sostituire uno con l’altro, per inventare mosse non previste da alcuno schema: se lui è l’avversario, io sono l’avversario del mio avversario, e lui il mio avversario ancora, il gioco dei rimandi si moltiplica fino a perdere il punto di partenza ….. Forse, più che giocatori, siamo diventati noi stessi pezzi della scacchiera, mani inconsapevoli che spostano regine e torri, mosse a loro volta da qualcuno destinato a restare nell’ombra, fuori dal quadrato. I giocatori veri studiano la gara su altri tavoli … senza scendere mai in campo … il gioco, alla fine, ritornerà nelle loro mani“.

Per concludersi con “…. ti lascio la scacchiera …. Adesso avrai tanto tempo per studiare l’ultima mossa”.   

Il gioco e la partita, reale o immaginaria, la vittoria e la sconfitta, nel mezzo l’amore: temi ricorrenti nelle pagine e nei versi di Giorgio Calcagno. Sì, perché Giorgio è stato anche un valente poeta. Chiudo allora questo post, a lui dedicato, con i simpatici versi, semplici ma vibranti, de “Ed io conosco il topo”, tratti dalla sua prima raccolta di poesie “Visita allo zoo” (1980):

Ed io conosco il topo

Conosci il falco, ed io conosco il topo,
tu il volo a picco, ed io l’orma del piede,
conosci il pino, ed io conosco l’edera,
conosco il legno, e tu conosci il fuoco.

Io faccio il viaggio, tu ne sai lo scopo,
io ti dò l’incertezza, tu la fede,
tu sai come donare, io come chiedere,
conosco il prima, e solo tu sai il dopo.

Tu trovi il filo, che nel labirinto
ti conduce sicura ad una uscita,
io ho perso il segno, annaspo ad ogni spigolo;

ma se guardi negli occhi, che hai avvinto
al tuo incanto di giada, io ho la partita:
rubo il lampo ai tuoi occhi, e ti sconfiggo.

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1 thought on “Il gioco del prigioniero

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