Cheating: l’oneroso onere della prova
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(UnoScacchista)
Non c’è bisogno di descrivere qui cosa si intende con il termine “cheating” o di ragionare sulla complessità del problema dell’uso di sotterfugi per ottenere l’aiuto di un software scacchistico durante una partita.
La cronaca riporta, con preccupante regolarità, casi di giocatori sospettati di utilizzare aiuti esterni, con una ricetrasmittente nascosa da qualche parte, con uno smartphone nascosto (addosso o in un luogo solo a loro noto degli ambienti di gioco e annessi) o addirittura semplicemente accusati di barare in qualche modo ancora da dimostrare.
Il problema principale è dimostrare che il cheating sia effettivamente avvenuto, ad esempio trovando addosso al sospettato le prove (come uno smartphone con un programma che sta analizzando la partita in corso – vedi il caso dell’indiano Dhruv Kakkar) o verificando che il giocatore stia usando uno smartphone nascosto in una toilette (come nel caso del GM Gaioz Nigalidze).
Le cose si complicano terribilmente quando il giocatore accusato si rifiuta di essere perquisito, reclamando la propria innocenza o quando non c’è in effetti nessuna prova oggettiva ma solo un sospetto la cui concretezza è difficile da valutare durante il torneo. Comportamenti inusuali, vestiario inadeguato, frequenti visite ai servizi, assenza di analisi congiunta a fine partita, verifica a posteriori delle partite che risultano di qualità troppo superiore al livello del giocatore… tutto può creare un sospetto, ma sta all’arbitro valutare e decidere se dare seguito o no.
Ken Regan, Maestro Internazionale e grande esperto di lotta al cheating, un paio di anni fa ha pubblicato su Chess Life un notevole articolo su come identificare se un giocatore ha utilizzato il supporto di un programma scacchistico durante una partita, analizzando le deviazioni dalla qualità di gioco attesa (in termini relativi e non assoluti).
Per chi è interessato, l’articolo è disponibile qui.
Il caso della giocatrice rumena Mihaela Sandu (accusata di cheating addirittura con una lettera aperta da molte sue colleghe durante il Campionato Europeo Femminile del 2015 senza nessuna prova evidente), che non ebbe nessuna conseguenza pratica se non la “demolizione” psicologica della giocatrice e la lunga storia del bulgaro Borislav Ivanov (accusato più volte, mai colto in flagrante, spesso ritaratosi da tornei pur di rifiutare una perquisizione), che alla fine si ritirò dagli scacchi agonistici, sono i due estremi della questione spinosa dell'”onere della prova“.
E’ questo il senso dell’approccio scelto dalla FIDE per combattere il cheating: controllare come prima cosa che nulla di inappropriato entri nella sala da gioco, verificando (con scanner e metal detectors) i giocatori ogni qualvolta che entrano nella sala da gioco. D’accordo, non è la soluzione più semplice da mettere in pratica per i tornei amatoriali, ma almeno i tornei più importanti per ora (e sottolineo per ora) dovrebbero essere protetti.

(fonte chess-news.ru)
Almeno fino a quando qualcuno non deciderà di creare un sistema umano di segnalazione delle mosse da giocare, come fecero Sébastien Feller, Cyril Marzolo e Arnaud Hauchard (capitano e allenatore della squadra francese) alle Olimpiadi del 2010 di Khanty-Mansiysk. Questo clamoroso caso di cheating fece ovviamente molto scalpore e fu con grande soddisfazione della comunità scacchistica che i colpevoli vennero condannati a pene severe (da un anno e mezzo a tre anni di sospensione) sia dalla Federazione francese che dalla FIDE.
Recentemente due altri casi hanno raggiunto l’onore della cronaca, interessanti perchè non coinvolgono giocatori di primo piano. E per questo ancora più importanti per la stragrande maggioranza degli appassionati di scacchi, sia per gli evidenti impatti sui tornei che per la dimostrazione di come la tentazione di dimostrarsi capaci di vincere (senza essere più bravi dell’avversario) stia diffondendosi anche tra coloro che dovrebbero essere animati solamente dalla passione per il gioco.
Il cinquantenne norvegese Stein Bjørnsen, giocatore cieco, si è reso protagonista tra l’estate e il dicembre del 2015 di una impressionante serie di vittorie in tornei locali, salendo in sei mesi da un livello equivalente a una nostra 2N a prestazioni corrispondenti ad un Elo superiore a 2250. Da un giocatore non giovanissimo (e in più da anni sempre allo stesso livello di gioco) non ci si aspetta improvvisamente una qualità di gioco che il GM Artur Kogan ha definito semplicemente “dovuta ad un chiaro caso di cheating“. La federazione norvegese, dopo una indagine durata circa sei mesi, è giunta alla conclusione che il giocatore usava un auricolare bluetooth non tanto per riascoltare le mosse della partita registrate tramite dittafono (cosa permessa, ma con un auricolare con cavo) ma per creare un collegamento radio con un computer che suggeriva le mosse da giocare. La pena comminata è stata pari a due anni di sospensione. Il tutto non su prove oggettive verificate durante le partite, ma grazie all’analisi di immagini e la verifica della qualità delle mosse giocate.
Il caso del trentasettenne Arcangelo Ricciardi è abbastanza complesso e rimando ad altri articoli il dettaglio delle accuse che gli furono mosse durante e dopo il Festival Internazionale di Imperia del 2015. Anche in questo caso la federazione nazionale ha aperto un procedimento di indagine che ha poi portato alla sentenza del 13 aprile 2016, con la quale il giocatore è stato sospeso per due anni. Il Tribunale Federale della FSI è infatti “giunto alla conclusione che nel caso concreto esistono presunzioni gravi, precise e concordanti che, valutate nel loro complesso, portano alla conclusione che il Ricciardi abbia usato mezzi fraudolenti durante il torneo di Imperia del 2015“, ma ha anche deciso di non comminare la sanzione massima, ovvero la radiazione. Strano che, dopo la ampia copertura mediatica iniziale del caso, la FSI non abbia dato risalto alla notizia sul suo sito ufficiale (dove, effettivamente, la sentenza è disponibile, ma solo a cercarla bene) e sui media in generale, in modo da creare un effetto deterrente verso possibili altri cheaters.
Come concludere questo excursus sui recenti casi di quello che è sicuramente un problema sempre più preccupante? Forse semplicemente ricordando che la miglior cura è la prevenzione. E’ evidente che il primo elemento della catena è la debolezza dell’Uomo, senza la quale il problema non esisterebbe, ma, accettando come inevitabile il fatto che ci sarà sempre qualcuno voglioso di “vincere” usando anche mezzi scorretti, è molto ma molto più efficace impedire l’ingresso in sala di apparecchiature riconosciute come potenzialmente fraudolente rispetto alla affannosa ricerca della prova e allo svolgimento di indagini e lunghi processi.
Speriamo che i computer, oltre ad aver trasformato il gioco degli scacchi in qualcosa di abbastanza diverso da quello che erano venticinque anni fa, non siano anche causa della trasformazione dei tornei in occasioni di sospetto e di accusa. E speriamo che gli appassionati, gli arbitri e le Federazioni sappiano mantenere e coltivare la passione e l’etica sui quali gli scacchi si sono sempre basati.
Immagine di apertura tratta dal Wall street Journal – Autore: Harry Campbell
Secondo me il “cheating” sta agli scacchi come il “doping” sta alle gare sportive. E quindi, come in queste sono consentiti i test antidoping, così dovrebbero nei tornei scacchistici essere consentite (ed accettate preliminarmente) le perquisizioni.