Quattro chiacchiere con Enrico Paoli – Prima parte
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(Riccardo M.)
Enrico Paoli (Trieste 1908 – Reggio Emilia 2005) è tra le persone che più hanno saputo e voluto dare agli scacchi italiani. Il Torneo di Reggio Emilia era una sua creatura. Come un figlio. E’ stato per decenni (1958-2011) l’appuntamento principale in Italia per lo scacchismo internazionale. Si sarebbe dovuto far di tutto per mantenerlo in vita. Non è stato fatto, evidentemente. Ed è stato un grave errore, un imperdonabile passo indietro.
[Nella foto, tratta dall’Italia Scacchistica, Paoli contro Palmiotto al Campionato Italiano del 1957]
Nel 1982 ebbi l’occasione di conoscere ed incontrare il Maestro Enrico Paoli. Quell’anno lo intervistai per “Zeitnot”; quella intervista fu poi riportata (febbraio 2013) anche sul Blog “Soloscacchi”.
Mi piace ripresentarla di nuovo qui oggi. Perché di “Grandi” come Enrico Paoli il movimento scacchistico del nostro Paese ne ha avuti pochissimi. Perché Paoli ha dimostrato che per fare la storia e il successo del nostro gioco non contano tanto i titoli Elo quanto la generosità nel proprio impegno e la capacità (sempre più rara) di saper lasciare in secondo piano gli interessi personali.
La mia conversazione con lui risale agli ultimi giorni di febbraio 1982, ed ebbe luogo una sera presso i locali dell’allora “Banco di Roma”, in località Settebagni (Roma Nord) in occasione dello svolgimento dell’omonimo 6° torneo internazionale (quella del 1982 fu una delle edizioni migliori del torneo romano: vinsero l’ungherese Joszef Pinter e Viktor Korchnoi (con punti 7 su 9), e ottimo terzo fu Mariotti che batté Korchnoi nello scontro diretto, e dietro ancora nomi illustri tra i quali Benko, Tatai, Robatsch, Zichichi, Unzicker).
Enrico Paoli, dunque. Parlavo con una persona di 74 anni, ed era un piacere discorrere con lui, ascoltare i suoi aneddoti, percepire intatto tutto il suo entusiasmo e l’amore per il “nobil giuoco”. Altri alla sua età avrebbero appeso la scacchiera al classico chiodo. Non potevo certo immaginare che ancora per tanto tempo Enrico Paoli avrebbe invece continuato a giocare e a scrivere pagine fondamentali per lo scacchismo italiano. Non potevo sapere che la FIDE gli avrebbe meritatamente attribuito, nel 1996, il titolo di Grande Maestro “honoris causa” e non potevo immaginare che nel 2004 avrei potuto incontrarlo di nuovo a Saint Vincent, davanti alla scacchiera come giocatore, all’età di 96 anni. Chissà se a Saint Vincent avrebbe risposto con le stesse parole alle domande che gli posi ventidue anni prima? O forse gliene avrei poste io di diverse? Non so. Comunque so che a Paoli avrei perdonato qualunque errore, anche la sua azzardata previsione (vedi più avanti) che mai un programma artificiale di scacchi avrebbe superato l’uomo.
Enrico Paoli ci ha lasciati il 15 dicembre del 2005, nella sua adottiva Reggio Emilia, a pochi giorni dal compiere i 98 anni.
Roma, febbraio 1982
Enrico Paoli (Trieste 13 gennaio 1908), una vita dedicata agli scacchi: maestro dal 1938, maestro internazionale dal 1951, campione italiano nel 1951, 57 e 68. Vincitore dei tornei di Vienna (1951), Imperia (1959) e Reggio Emilia (1968). Prima scacchiera alle Olimpiadi di Amsterdam del 1964, capitano della nazionale alle Olimpiadi del 1970, 72 e 76. Arbitro internazionale dal 1964.
Scrittore e teorico del gioco, apprezzato compositore di studi, cura da anni varie rubriche sulle maggiori riviste italiane e straniere. Cavaliere al merito della Repubblica per meriti scacchistici, Enrico Paoli è uno dei grandi dello scacchismo italiano di ogni tempo, certamente tra quelli che più si sono prodigati per l’affermazione e la divulgazione del gioco.
L’interesse e l’importanza della nostra conversazione con il Maestro Paoli, schietto e sincero su ogni argomento, travalica quelli che erano gli obiettivi della rubrica, ovvero l’intervista in senso stretto, ed assume la forma ed il tono di una sintesi del pensiero scacchistico del grande triestino.
Z: Maestro Paoli, può parlarci dei momenti più belli della sua già lunga carriera, e che le auguro ancora lunghissima, di giocatore e poi di organizzatore ed arbitro?
Enrico Paoli: Sono stati tanti i bei momenti, ma più di tutti, per ora, quelli che ho vissuto da giocatore. Il più bello senz’altro nel 1951, quando sono diventato Maestro Internazionale, vincendo il torneo di Vienna, a distanza di 25 anni dal successo di Monticelli a Budapest.
Z: Lei ha avuto occasione di affrontare quasi tutti i migliori giocatori degli ultimi trent’anni. Mi piace chiederle, in particolare, chi, davanti alla scacchiera, si è mostrato più sportivo e corretto e, magari, se può dirlo, chi un poco di meno.
Paoli: Tra i più corretti ricordo ad esempio Unzicker, o Petrosjan, o Tajmanov. Un po’ meno lo era Donner. C’è poi da dire di Fischer. Vede, con lui non ho mai giocato, ma l’ho visto giocare spesso con altri, l’ho visto perdere con Spassky alle Olimpiadi di Siegen e subito scappare senza nemmeno firmare il modulo. No, no, lui non è stato un esempio da seguire, come non lo è stato, e mi dispiace dirlo, il povero O’Kelly quando ebbe a perdere una partita con me: mise giù il Re e se ne andò senza neanche stringermi la mano.
Z: Ma si è imbattuto anche in giocatori che durante la partita cercano in qualche modo d’innervosire o distrarre l’avversario?
Paoli: Sì, sì, ci sono, anche se molti lo fanno a volte senza neppure rendersene conto. Ad esempio, l’americano Zuckerman, durante il torneo di Bari del 1970 continuamente toglieva dalla scacchiera dei “pelini” che nessuno vedeva: li vedeva soltanto lui. Io ero l’arbitro di quel torneo e ricordo che il buon Honfi, giocatore ungherese, venne da me a protestare per questo comportamento: “io non riesco a giocare! Ogni tanto mi appare davanti agli occhi questo dito che piomba dall’alto sulla scacchiera …”. Ma io sapevo bene che Zuckerman non lo faceva apposta, la sua era una mania, e allora che vuol fare contro le manie?
Z: A proposito di scarsa correttezza, in uno dei suoi libri lei accenna ad una sua partita con Filip sospesa in una posizione apparentemente vinta per lei e che poi fu patta soltanto grazie (per Filip) alle analisi notturne del suo “secondo”, Fichtl. Cosa ne pensa, oggi, di questo caso e di altri simili?
Paoli: E’ vero, è vero, accadono cose che mi sento di definire semplicemente indecenti. Io suggerirei di cambiare i regolamenti in questo modo: giocare il pomeriggio per cinque ore, sospendere un’ora-un’ora e mezza per la cena, poi riprendere dopo cena. E’ quello che sosteneva Canal, e prima di lui già Capablanca. Ma vedo, ragazzo, che lei ha letto il mio libro “Giocare bene per giocare meglio”. Avrà allora anche letto che nel torneo di Sofia ho avuto cinque notti di partite sospese, e analizzare tre-quattro ore per notte è un incubo e una fatica tremenda. Un’altra soluzione, vede, può essere quella adottata nel mio torneo di Reggio Emilia, ovvero cinquanta mosse in tre ore: parecchie partite finirebbero senza arrivare alla sospensione.
Z: Lei, maestro, ha appena citato una sua opera. Esiste qualcosa che vorrebbe scrivere, ma che non ha avuto ancora la possibilità di fare?
Paoli: Beh, di sicuro vorrei ancora scrivere qualche libro, ma in fondo penso che i quattro fin qui usciti hanno ben riempito una lacuna.
Z: Fra questi quattro qual è stato quello di maggior successo?
Paoli: Certamente quello che abbiamo già citato: “Giocare bene per giocare meglio”, che ha venduto tremila copie in pochi mesi, un “boom”, credo, per il nostro Paese. Lo stesso Canal, con la sua ottima “Strategia di avamposti”, ha impiegato dieci anni per vendere lo stesso numero di copie. Questo, però, anche perché oggi ci sono tanti giovani che leggono molto. A proposito, dovrei fare una critica a questi giovani, perché comprano troppi libri e studiano poco. Invece i libri dovrebbero essere tre o quattro, basilari, da imparare a memoria o da consultare così come si consulta un dizionario. Invece, lo vede che errori fanno i giovani? Lo vede?
Z: ..ma io, sinceramente non …
Paoli: Glielo dico io: fanno sempre gli stessi errori, giocano per la tattica, buttano i pedoni in avanti, lasciano case deboli, dimenticano, insomma, quella che è la strategia.
Z: Mi pare di capire, quindi, che lei non vede chi, fra questi giovani, abbia la possibilità di seguire le orme di Mariotti.
Paoli: Eh! Ma lei ha nominato un pazzo! Sì, Mariotti è proprio un pazzo, un genialoide. Mica è facile seguire le sue orme! In un certo senso si può dire che Mariotti (e non me ne voglia il bravo Sergio, che io conosco fin da ragazzino e che in questo momento è di là che gioca) abbia influito negativamente sull’educazione scacchistica dei giovani. Quando lui butta lì un “h5”, o un “a5”, è chiaro che mica tutti possono imitarlo in questo, come non tutti potevano imitare un Nimzowitsch, ad esempio. Mariotti è un po’ al di fuori di quello che è la norma, ha uno stile tutto suo col quale spesso riesce ad influenzare anche il gioco degli avversari. E, del resto, che succede in Italia? Guardi un Franco Scafarelli, un Renato Cappello, un Daniele Taruffi: quando cominciano ad avere la possibilità di salire, ecco il lavoro, la vita di tutti i giorni e … buonanotte, spariscono tutti. Oggi sembra promettere bene Arlandi, ma, come ho spiegato nei miei libri, i primi passi sono quelli che vengono grandi e ampi, è dopo che si fanno i passetti piccoli ma decisivi, è lì che inizia il vero e difficile lavoro, è li, purtroppo, che gli italiani se ne vanno. Non hanno tenacia. Mi chiedo, a volte, se bisogna essere tedeschi, slavi o ebrei per riuscire. Da noi l’ultimo Maestro Internazionale è stato Zichichi, ed ha 40 anni. Dove sono i giovani? Non ce ne sono.
Z: Eppure, oggi le possibilità di emergere aumentano: festivals e tornei non mancano.
Paoli: Sì, tutti questi festivals danno modo ai giovani italiani di giocare con i maestri stranieri. Io ho dovuto attendere 40 anni per giocare il mio primo torneo internazionale. Tuttavia il livello tecnico dei nostri giocatori lascia ugualmente a desiderare. Si arriva a Maestro Fide e non si va oltre. Ci vorrebbe maggiore serietà nei giovani e soprattutto bisognerebbe evitare i tornei a sistema svizzero, dove si fa questo tipo di ragionamento: “ho perso oggi, domani vincerò”. Il vero torneo è invece quello all’italiana, dove ci si deve creare una linea di condotta dalla prima all’ultima partita, dove si deve calcolare, osservare le partite degli altri, prendere nota delle aperture che vengono giocate…
Z: Qual è la sua opinione sul sistema delle categorie e delle promozioni che è in vigore attualmente in Italia?
Paoli: Ho un’opinione per niente buona, per niente. Quando io ero giovane c’erano i circoli, e basta. Oggi sentiamo qualunque salame dire “no, io non gioco il torneo sociale perché sono di seconda nazionale” e crede di essere chissà chi! Qual è, invece, la base di una società? E’ la famiglia scacchistica, cioè il circolo. Non che io non sia d’accordo con i tornei “open”, è che non sono d’accordo con le categorie. Piuttosto occorrerebbe tornare subito al sistema Elo. Enzo Giudici, di Roma, ha lottato tanto per abolire l’Elo, e mi scrisse anche affinché io sostenessi la sua battaglia. Gli risposi con queste parole “Io una volta avevo 2.335 punti Elo, adesso ne ho 2.220, ed è giusto che sia così perché sono vecchio. Non posso pretendere di avere a 70 anni l’Elo che avevo a 20. Se lei, poi, mi propone un sistema migliore dell’Elo, io glielo sostengo”. Il fatto è che non esiste niente di meglio. Con l’Elo si è potuto fare confronti fra i giocatori attuali e i campioni del passato. E, anche se non è perfetto, ma non c’è nulla di perfetto a questo mondo, può dare, più o meno, l’idea della capacità attuale del giocatore, sempre se questi ha l’intenzione di giocare; se invece ha l’intenzione di lavorare con l’alambicco, allora è un altro discorso.

Z: A proposito di alambicchi. E delle patte d’accordo, ormai piaga in tanti tornei, a tutti i livelli, cosa ci dice?
Paoli: Mah, e cosa si può fare, d’altra parte? Si era pensato di vietare la patta prima della trentesima mossa, ma allora nessuno può impedire a due giocatori di fare 1.Cf3,Cf6 2.Cg1,Cg8 3.Cf3,Cf6 eccetera. Una volta Rogoff ed Hubner si misero d’accordo per la patta dopo 1.e4. Dopo le contestazioni del direttore del torneo, continuarono così la partita: 1…a6 2.Ab5, seguitando a mettere i mezzi in presa fino a pareggiare lo stesso [1]. Questo significa prendere in giro gli spettatori. Io li avrei volentieri squalificati per cinque anni.
Z.: Perfettamente d’accordo sull’Elo e sulle patte. Non crede però che il campionato dei giovani, la Coppa Italia, il Campionato a squadre, siano sintomi di un certo risveglio della FSI?
Paoli: Lo spero, purtroppo quello che da noi manca è la disciplina. La FSI non dimostra tutta quell’autorità che dovrebbe avere, come avviene all’estero ad esempio. Così succede che Tizio si vende la partita, che Caio si vende la coppa per diecimila lire. E tutti lo sanno e fanno finta di niente. Questi comportamenti dovrebbero essere severamente puniti dalla Federazione. Invece che accade? Che abbiamo un conte dal Verme che …boh? Abbiamo un Palladino che s’interessa soprattutto di organizzare tornei tipo Campionato del mondo. Intendiamoci, non voglio criticare, anche questo fa brodo, però sono le piccole cose, come l’allenamento dei giovani, che mancano. Perciò, quando Palladino è riuscito a strappare a suon di centinaia di milioni la finale mondiale, poteva fare ancora qualcosa di più, allestendo contemporaneamente un torneo FIDE, o magari il Campionato dei giovani.
Z.: Quindi Merano è stata forse un’occasione mezzo perduta?
Paoli: Beh, abbiamo concentrato su di noi per parecchie settimane l’attenzione del mondo: c’erano venti telescriventi, non so quanti grandi maestri e giornalisti. Interessantissimo, però dopo che traccia rimane? Cosa resta allo scacchismo italiano? Niente. Un po’ di lustro e buonanotte! Capisce cosa voglio dire? Bisogna lavorare più sui giovani. Parliamo, ad esempio, di Bela Toth: Ormai Toth è diventato cittadino svizzero, perché in Italia non trovava da vivere. All’estero i migliori giocatori vengono assunti da banche o industrie (qui il Banco di Roma è l’unica eccezione). Sa, a Venezia un giorno Hort mi disse “… ma io verrei volentieri a giocare in Italia, datemi però la sicurezza di vivere con la famiglia …”.
Z.: Non si riscontra in tutto ciò anche una latitanza delle autorità sportive politiche?
Paoli: Eh, sì! Quando parli di scacchi, a volte neanche rispondono. Solo ora qualcuno ha cominciato un po’ a rendersi conto che gli scacchi non sono soltanto un passatempo, grazie anche a Fischer, a Korchnoj, a tutto ciò che in questi ultimi anni ha fatto notizia. Ma si tratta sempre di interessamenti episodici, i buoni propositi rientrano molto presto in un cassetto.
Z.: Quando arriveremo allora ad avere gli scacchi insegnati nelle scuole?
Paoli: Ho provato ad insegnare scacchi nelle scuole. Una volta scrissi anche al Provveditore agli Studi, il quale girò tutto al Ministero della Pubblica Istruzione, da dove mi arrivò, dopo un bel po’ di tempo, una sconcertante risposta che in sintesi diceva: “Gli scacchi sono soltanto un gioco, e un gioco non adatto alle scuole”. E allora cosa si vuol fare? Quando si trovano sempre delle porte chiuse? Ad ogni modo io ho tenuto parecchi corsi nelle scuole. Ecco, quando c’è un presidente che è una persona intelligente, allora a volte si può fare qualcosa anche nelle scuole. Ma naturalmente queste iniziative di singoli, come le mie, valgono a poco: occorrerebbe entrare proprio nel programma scolastico.
Z.: E in attesa di ciò, che altro si potrebbe fare per diffondere adeguatamente gli scacchi anche in Italia?
Paoli: Ah, è molto semplice: basterebbe trovare in ogni città un Paoli o uno Zichichi, oppure avere l’organizzazione che c’è, ad esempio, in Ungheria. Pensate che la federazione ungherese ha comprato di recente tutti i libri di un certo Toth, un signore di Kecskemet, una biblioteca fantastica, due appartamenti tappezzati di libri. Certo, ogni Paese ha i suoi problemi: in Ungheria, negli ultimi campionati nazionali, Portisch, Pinter e gli altri migliori non volevano giocare perché si guadagnavano solo “forint”, che sono cosa ben diversa dai dollari. Ma chi è che gioca solo per amore degli scacchi? Karpov? Forse, però intanto a Milano si è fatto dare tremila dollari sottobanco. Il fatto è che, quando si comincia a sentire il suono del “vil metallo”, tutti quanti ridiventano uomini e le belle idee vanno a farsi benedire.
(Continua)
[1] (da una ricerca di Claudio S.) Paoli, come tutti gli scacchisti, di fantasia ne aveva da vendere. E’ probabile che la partita citata, giocata a Graz nel 1972, lui la conoscesse solo per sentito dire. Infatti in realtà la Huebner-Rogoff incriminata iniziò con 1. c4 e non con 1. e4. Ecco la partita:
Robert Huebner-Kenneth S Rogoff
Graz, 15 Luglio 1972
1. c4 (Il motivo di questo comportamento è stato una forma di protesta da parte di Huebner, che aveva molte partite aggiornate e avrebbe voluto un turno di riposo. Il suo capitano, invece, lo fece giocare comunque contro l’americano, dicendogli che una rapida patta sarebbe stata accettabile. — Pal Benko) Cf6 2. Cf3 g6 3. Cg1 Ag7 4. Da4 O-O 5.Dxd7 Dxd7 6. g4 Dxd2+ 7. Rxd2 Cxg4 8.b4 a5 9.a4 Axa1 10.Ab2 Cc6 11. Ah8 Ag7 12. h4 axb4 13. ½-½