Trattoria Ariosto
5 min read
(Adolivio Capece)
Mario Soldati (Torino 16.11.1906 – Tellaro /Sp/ 19.6.1999) fu scrittore, giornalista, regista cinematografico, autore televisivo, sceneggiatore. Tra i suoi programmi ‘Viaggio nella Valle del Po’ (12 puntate nel 1957-58), primo reportage enogastronomico della RAI. Era appassionato di scacchi, come dimostra la parte iniziale del racconto “Trattoria Ariosto”. Questo racconto è tratto dalla raccolta “Storie di Spettri” (Milano 1962, Mondadori) ed ha per oggetto un episodio della vita di Soldati nel periodo in cui era in prevalenza a Roma, ovvero negli anni ’50.
Da segnalare che Soldati parla di scacchi anche in “Lettere da Capri”, dove ricorda di aver passato una notte a giocare a casa di un amico regista della Rai, insieme anche ad un ‘funzionario ungherese suo collega’, troppo forte nel gioco rispetto agli altri …
“Chi è giocatore di scacchi mi capirà. Tutti gli uomini, compresi i più fortunati e i più felici, hanno di tanto in tanto le loro giornate tristi. Giornate quando il cuore si gonfia di amarezza per piccole o grandi delusioni e umiliazioni. Giornate quando la vita sembra una battaglia perduta. E immagino che ciascuno, specialmente se arrivato ad una certa età, abbia il suo rimedio più o meno pronto, più o meno efficace.
Ma chi è giocatore di scacchi, anche saltuario e mediocre come me, sa benissimo che c’è un conforto infallibile: sedersi davanti a una scacchiera e dimenticare la lotta vera della vita, sostituendovi la lotta fantastica di una buona partita giocata a fondo, con ogni rispetto delle regole, e contro un avversario poco superiore o poco inferiore a noi. Qui trucchi non sono possibili. Qui tutto è chiaro. Tutto è logico. Tutto è matematico. E perde chi, dei due, sbaglia prima, ragionando un po’ meno a lungo dell’altro.
Ci si alza dal gioco smemorati e soddisfatti. Riconosciamo, ogni volta, con immancabile lealtà la forza dell’avversario, se siamo stati battuti; se abbiamo vinto, affermiamo la nostra, con orgoglio sereno. Torniamo a casa, o al lavoro, rinfrancati.
Comunque vada esiste qualche verità, ci diciamo: qualche verità al di fuori di noi, immutabile: se si riflette perfino nell’umiltà di un gioco, che, senza impegnare il nostro denaro né le nostre passioni, ha completamente riempito alcune ore della nostra vita.
Ma è sempre più difficile, per chi abita a Roma e non tolleri lo squallore e la grettezza inevitabili di qualunque circolo o associazione con locali propri, trovare un caffè dove si giochi a scacchi.
Una volta c’era il Caffè della Breccia. Era a breve distanza appunto da Porta Pia, in via XX Settembre, davanti al Ministero delle Finanze. Da parecchi anni è diventato un bar qualunque, ma più piccolo, e dove i giocatori non sono più ammessi. Alle mie vivaci proteste il nuovo padrone replicava: “E che li tenevo affà? Se prendevano tutto il posto, staveno tutto il giorno e nun consumaveno gnente!”.
Così, dopo lunghe ricerche, ebbi infine la fortuna di scovare un misero, perduto caffeuccio in via San Giovanni Decollato, in quel quartiere della vecchia Roma compreso tra questa via e via Sant’Anastasia, piccolo altipiano gremito di vecchie case e vecchie chiese tra il Campidoglio e il Palatino, isola magicamente intatta nel deserto d’asfalto delle demolizioni o contro i fondali di cartapesta dei palazzoni del governatorato.

Operai, artigiani, impiegati, pensionati, bottegai sono gli appassionati scacchisti che qui si radunano, organizzati alla buona in un circolo intitolato a Giancarlo Dal Verme (presidente della Federazione Scacchistica Italiana nel 1947 e 1948 e poi dal 1958 al 1979, NdA).
Si accontentano di una retrobottega vasta, e dalla volta alta, ma nuda e senza finestre. Nel centro di una parete, di fronte all’arco di ingresso, che comunica col vero e proprio caffè, un armadio a cassettini ed ogni cassettino col suo lucchetto: ogni socio ha i suoi scacchi. Tuttavia il giocatore ignoto e avventizio è, all’occasione e senza che spenda parole, bene accetto. Qualche tavolo di ferro, una ventina di sedie, e consunte scacchiere gettate alla rinfusa sopra l’armadio. Nella buona stagione sarebbe pur bello giocare all’aperto! Il caffè espone i suoi tavolini sul selciato di via San Giovanni Decollato, all’angolo di via Bucimazza. Il luogo è fresco, ventilato. Il traffico delle macchine quasi nullo. Ma, anche qui, il padrone non permette: intende riservare i tavolini esterni ai veri consumatori e bisogna ringraziarlo che lasci agli scacchisti l’uso della retrobottega.


L’altro giorno, dunque, trovandomi ad abbisognare del periodico rimedio di una partita a scacchi, con improvvisa decisione abbandonai lo stabilimento dove lavoravo, saltai sul primo taxi, fuggii attraverso la città, approdai ancora una volta al porto quasi clandestino di via San Giovanni Decollato.
Giocai a scacchi tutto il pomeriggio nella povera retrobottega del caffeuccio.
Alla fine, quando decidemmo di smettere, il mio avversario, che conoscevo di vista per avere giocato con lui altre volte, invece di salutarmi, come sempre, a mezza voce e senza alzare su di me uno sguardo ancora attratto dalla scacchiera, volle presentarsi: “Sono il professor Pelegatti – disse – professore di belle lettere e ferrarese, ma emigrato a Roma ormai quasi da trent’anni e impiegato al Ministero della Pubblica Istruzione … vorrei parlarle, se non la importuno. Possiamo uscire …” “Sarà meglio” dissi. Infatti i giocatori, intorno, levavano verso di noi i loro volti, trasognati nei calcoli e già infastiditi dal nostro dialogo.
(…) Bisogna dire, per spiegare davvero la mia improvvisa simpatia e disposizione a ricevere il suo sfogo, che lui mi era, nel gioco, nettamente superiore: di poco, ma nettamente. Su sei partite, quel giorno, lui ne aveva vinte quattro. Le altre due: una impattata, una sola vinta da me. La ferita al mio orgoglio di scacchista era così medicata da quella richiesta di ascolto…”