Uno Scacchista

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“La Regina degli Scacchi” e Aristotele

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(Tristano Gargiulo)
Lo spunto di questo breve, ma sentito divertissement nasce dalle sensazioni che ho provato nell’animo durante la visione delle sette puntate della Regina degli scacchi, che, da filologo classico e scacchista, mi hanno fatto pensare con immediatezza alla teoria che Aristotele costruisce, nel capitolo 6 della sua Poetica, per spiegare l’impatto di uno spettacolo teatrale su chi vi assiste.

Sappiamo come la rappresentazione di una tragedia, che ad Atene si svolgeva nel teatro di Dioniso, davanti ad una parte consistente della cittadinanza, colpisse profondamente gli occhi e la mente del pubblico, tanto da essere discussa nelle piazze e nelle vie, e da imprimersi nella memoria al punto da poter essere parodiata con efficacia, anche a distanza di anni, dai poeti comici. Questo ci permette di assumere, fatte salve le debite differenze, che la forma di spettacolo di cui fruiamo più spesso nella nostra veste di spettatori, cioè l’arte cinematografica, possa esserne uno fra i più plausibili corrispettivi moderni.

E dunque possiamo provare ad applicarvi, nello specifico caso della Regina degli scacchi, i concetti che il filosofo ha elaborato per la principale forma di spettacolo antica, e cioè quelli di ‘paura’, ‘compassione’, ‘catarsi’. Sperando che la semplificazione non mi attiri troppo gli strali degli addetti ai lavori – sono temi su cui tanto si è scritto e ancora si indaga -, si può sintetizzare così  il pensiero di Aristotele: assistere ad uno spettacolo ‘agìto’, e non raccontato (ragion per cui quanto sto per dire non è altrettanto applicabile al libro di Walter Tevis da cui La regina degli scacchi è tratto), crea una sorta di immedesimazione dello spettatore nelle vicende alle quali sta assistendo; egli prova ‘paura’ e ‘compassione’ (noi diremmo forse empatia) per ciò che accade al protagonista, e l’effetto combinato di questi due sentimenti, vissuti nell’immaginazione, non nella realtà, ma con un potente coinvolgimento emotivo, produce una liberazione dell’animo, una ‘purificazione’ (questo vuol dire ‘catarsi’, che è propriamente termine della medicina antica), un sentirsi come chi ha percorso una via nelle tenebre ma ne è uscito a riveder le stelle. Circa un secolo prima della composizione della Poetica, il sofista Gorgia aveva formulato un pensiero che può essere utile per comprendere la concezione aristotelica: «La tragedia è un inganno, in cui chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi si lascia ingannare è più saggio di chi non si lascia ingannare». Questo tipo di spettacolo dà dunque vita a un universo immaginario, la cui suggestione lo spettatore fa bene a subire entrandovi, non rimanendo a guardarlo dal di fuori.

L’enorme immediato successo che La regina degli scacchi ha avuto, i tanti convinti apprezzamenti, le reazioni emotive forti che ha suscitato, anche fra chi non conosce il gioco, mi hanno spinto a cercare, nella sua trama narrativa e nei modi in cui è condotta, qualcosa che ha colpito nel profondo chi lo ha visto, più di una semplice fiction ben congegnata. E in questo sono confortato da altre impressioni, oltre la mia, che mi hanno fatto riflettere.

I protagonisti sono due: Beth Harmon e gli scacchi. Gli scacchi Beth li incontra nell’orfanotrofio in cui vive, dopo l’abbandono del padre e la morte della madre, osservando il signor Schaibel, il custode, che li coltiva, con solitario studio, nel buio sotterraneo dell’istituto, e saranno per lei, oltre che una bruciante passione, uno strumento in cui trovare identità e riscatto. Nella loro lunga storia, gli scacchi sono stati spesso una di queste due cose: mondo fantastico da abitare per sopravvivere al mondo reale, e abilità conquistata (o dono di natura) per risollevarsi da una vita mortificata. In entrambi i casi, e in altri ancora, anche un modo per combattere i demoni che uno si porta dentro: impresa estremamente difficile, che non raramente si traduce nel sostituire quei demoni con altri, anche più pervicaci.

Beth e gli scacchi diverranno una cosa sola, ma solo fino al magnifico finale dell’ultima puntata, che è lo snodo di tutta la vicenda.


ATTENZIONE: Chi non ha ancora visto la serie dovrebbe rimandare la lettura delle righe che seguono


Nelle prime puntate condividiamo le sofferenze di Beth, soprattutto di Beth bambina, e nutriamo speranze per Beth quando cresce, cerchiamo di superare con lei le sue paure, che diventano nostre, e, soprattutto nella penultima, se seguiamo i consigli gorgiani di non fare resistenza alla finzione scenica, sapientemente gestita dagli sceneggiatori (cui Gorgia avrebbe di certo riconosciuto una grande abilità nell’infondere il provvido inganno nel nostro animo), viviamo lo spavento che Beth si perda, si butti via, sprofondi di nuovo nel gorgo dell’incapacità di cambiare il suo destino.

Ma l’ultima puntata è una vera ‘catarsi’, e come tale l’ho prepotentemente sentita. L’ascesa di Beth all’Olimpo degli scacchi degli anni Sessanta, correttamente collocato nella Russia sovietica di allora, ha bisogno, per compiersi, che Beth ripercorra il suo passato. Che veda con occhi nuovi quello che, prima, il dolore e un male dell’animo le impedivano di vedere e di comprendere: amicizie che erano più vere di quanto lei credesse, l’amore confuso ma autentico di una madre adottiva, ma soprattutto l’essere rimasta, senza saperlo, nei pensieri di colui che, più di suo padre, le aveva fatto il dono della vita, insegnandole gli scacchi e continuando, negli anni, a credere in lei, come all’inizio di tutto: il signor Schaibel e i suoi ritagli di giornale, appesi al muro di quel seminterrato, a fianco della prima scacchiera su cui Beth aveva scoperto il gioco da cui era stata subito affascinata. Non credo che molti siano rimasti indifferenti a quella scena.

Il torneo che Beth Harmon vince a Mosca è uno di quei tornei ad inviti dove da sempre è consuetudine, nel mondo agonistico degli scacchi, che si confrontino i migliori giocatori del mondo. All’ultimo turno, nella partita decisiva che la oppone a Borgov (una bella figura, seria e leale, che mi ha fatto pensare a Keres), il momento cruciale è quando Beth rifiuta la patta che il campione le offre. È quella la vera vittoria, che un giocatore di scacchi vince prima di tutto con sé stesso: per Beth significa scoprire che la fiducia in sé stessa è diventata più grande della paura di perdere la partita più importante della vita.

E nella meravigliosa scena finale, quando Beth, distesa in volto e raggiante nel vestito e nel cappello bianchi come la neve di Mosca, si mescola ai giocatori di scacchi del parco, in mezzo a una sconfinata distesa di scacchiere, e si siede davanti a un anonimo signore, quel «Giochiamo?» che pronuncia, in russo, è il segno più bello che, ormai libera da tutti i suoi demoni, può finalmente giocare per il piacere del gioco e non per la compulsione a battere giocatori sempre più forti fino al campione del mondo, divisa com’era, nella vita precedente ormai alle spalle, tra una divorante ansia di riscatto e una quasi invincibile disperazione.

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1 thought on ““La Regina degli Scacchi” e Aristotele

  1. Buongiorno Tristano 🙂, spero tutto bene. Ho letto con grande piacere il tuo bel pezzo sulla mini serie di Netflix; l’ho letto emozionandomi in più punti (cosa già accaduta durante la visione in TV). Voglio rileggerlo, più tardi, una seconda volta per apprezzare ulteriormente alcune cose delle quali nulla conosco. Grazie e a presto, Roberto

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