Fischer tra Schopenhauer e Spassky
8 min read
(Riccardo M.)
Rileggendo alcuni giorni fa il coinvolgente articolo di Topatsius “Fischer, un megalomane pazzo”, mi sono sentito stretto fra un mix di sensazioni di inevitabile fastidio e, in pari tempo, di stupita condivisione.
Si tratta di sensazioni evidentemente non troppo dissimili da quelle che hanno provocato una serie di reazioni e commenti in rete, la più parte di tenore negativo.
L’autore e i lettori mi perdonino qualche riflessione, più o meno pertinente con quel testo. Ricordo intanto che neppure il nostro Sergio Mariotti temette, nella conclusione di questo suo articolo [Reykjavik 1972: quell’indimenticabile match del secolo (2)] di utilizzare anche lui espressioni piuttosto forti nel descrivere l’uomo-Fischer.
Adesso apriamo una parentesi e facciamo alcune osservazioni più generali sui comportamenti umani, muovendoci da ciò che scriveva il grande filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (immagine sotto il titolo) in “Aphorismen zur Lebensweisheit” (“Aforismi sulla saggezza della vita”, 1843-1851):
“Ciò che rende invidiabile una persona non è l’esser ritenuto un grand’uomo dalla massa, così spesso infatuata, ma di esserlo veramente”
Infatuazione, quindi. Orbene, l’infatuazione si ha quando alcuni aspetti del pensiero o del lavoro o delle imprese sportive di una persona prendono a tal punto dentro di noi il sopravvento su ogni altro aspetto, che stentiamo perfino ad immaginarne altri, o forse ne immaginiamo altri ma li immaginiamo soltanto come noi vorremmo che fossero, oppure ancora ne intravediamo altri ma li sottovalutiamo o non ce ne interessiamo.
E’ inevitabile che in misura diversa, spesso subliminale, ognuno di noi subisca l’influenza di infatuazioni o di qualcosa di molto simile all’infatuazione (parlare di una viva “ammirazione” può essere a volte altrettanto adeguato e di certo più sobrio). Ciò può accadere non soltanto nella sfera emozionale privata, ma nella stessa sfera pubblica, ovvero politica, dove certi ripetuti e ripetitivi messaggi possono riuscire a farci percepire una realtà abbastanza o profondamente diversa da quella che è, e pertanto c’inducono ad agire di conseguenza, a volte d’impulso e irrazionalmente.
In politica (concedetemi questa ulteriore digressione) certe suggestioni rischiano di essere pagate a caro prezzo non soltanto dal singolo, ma dall’intera collettività. In politica l’azione e gli input di uno solo, se personaggio influente e carismatico, possono costituire la spinta per l’azione di mille persone, di un milione di persone, di un intero movimento in grado di travolgere o quantomeno minacciare gli argini della legalità e della democrazia, o semplicemente incidere sulla carriera e la vita di molte persone. Di queste prolungate “infatuazioni collettive” e di una possibile, derivata e perniciosa, egemonia culturale, l’Italia, da Mussolini fino ai giorni nostri, costituisce un valido modello. Insomma, l’evoluzione naturale della scienza e della ricerca non porta assolutamente con sé un’evoluzione culturale e spirituale delle masse, in nessun luogo del mondo.
Ecco pertanto che il rischio dell’uniformità di pensiero, elemento basilare della dittatura, è costantemente una minaccia dietro l’angolo, e lo è stata in altre epoche come lo è nel XXI° secolo. Esiste infatti immarcescibile nell’animo umano quella che in “The Authoritarian Dynamic” (2005) la politologa e psicologa australiana Karen Stenner chiama una “predisposizione autoritaria”.
Che cosa sia una predisposizione autoritaria lo descrive con parole molto chiare la giornalista e storica polacca Anne Applebaum nel suo ultimo (e assai pregevole) lavoro “Twilight of democracy” (2020): “la predisposizione autoritaria si può definire come una semplicità di vedute; se la gente è spesso attratta da idee autoritarie è perché la complessità la infastidisce. Le divisioni non le piacciono. Preferisce l’unità. Un improvviso emergere di diversità (di opinioni, di esperienze) la manda in collera. E cerca soluzioni in un nuovo linguaggio politico che la faccia sentire più sicura e protetta”.
L’autoritarismo, in sostanza, è visto dalla Stenner e dalla Applebaum fondamentalmente come una reazione a delle minacce esterne. Ed è vero! Non è un caso se i grandi spostamenti demografici di questi ultimi decenni abbiano accentuato sia questa sensazione di bisogno di sicurezza da parte di determinate popolazioni, sia di conseguenza anche il crescente successo di alcuni partiti di orientamento spiccatamente nazionalista.
A proposito dell’uniformità di pensiero, un esempio (uno dei tanti) è arrivato in Italia, nelle scorse settimane, dalla vicenda dell’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, che fu nel 2016 (come forse avrete letto sui mass media) tra le persone investite da ciò che è stato anzitutto un diffuso sentimento di insana ribellione ad una cosiddetta “casta”. Uggetti ha pronunciato significative parole: “… Nessuno di noi è immune da questo impulso: anch’io negli anni ’90, nel pieno di “Mani Pulite”, esultavo per degli arresti. Adesso me ne vergogno”.
Ebbene, devo ammettere che io stesso in quegli anni ’90 restai tutt’altro che alieno da quell’influenza, per la quale non esistono vaccini se non la ragione.
Parallelamente (è meglio non allontanarci oltre e tornare agli scacchi) anche l’articolo di Topatsius potrebbe essere visto come un tentativo di uscire da un certo tipo di uniformità di pensiero, bruscamente e con toni a tratti arroventati, ovvero di manifestare il proprio allontanamento da una specie d’infatuazione/ammirazione collettiva. In questo senso quel post e alcune crude parole possono essere comprensibili. Topatsius avrebbe dunque provato, in un post con qualche antipatica movenza e dalla veste ad alcuni apparsa po’ faziosa, ciò che io difficilmente tenterò mai, in quanto il grande Bobby Fischer è stato colui che ha determinato il mio avvicinamento agli scacchi e la mia definitiva e fortunata scoperta della grandezza degli scacchi. Pertanto io rimarrò forse per sempre, e consapevolmente, ma parzialmente, dentro quella specie di “bolla scacchistica”.
Ricordo di aver avuto percezione di questo particolare atteggiamento della mente umana il giorno in cui parlai con un amico professore di lettere, grande ammiratore del poeta Giovanni Pascoli, nel momento in cui gli chiesi cosa pensasse del libro del neurologo e psichiatra Vittorino Andreoli “I segreti di casa Pascoli”: l’amico mi lanciò uno sguardo di disapprovazione, si adombrò immediatamente e non rispose, ma cambiò discorso, forse temendo di ferire, col solo parlarne, la memoria del poeta; evidentemente nemmeno lui era pronto/disponibile per uscire dalla sua personale “bolla pascoliana”.
In realtà non riesco ancora a comprendere appieno se nel 1972 fui trascinato nel mondo degli scacchi più dalla personalità e dal fascino delle brillantissime giocate di Bobby Fischer o più da una situazione che mostrava al pubblico internazionale uno scontro epico quanto impari tra un impavido cavaliere solitario e la terrificante e apparentemente imbattibile macchina da guerra sovietica, macchina impersonificata da un Boris Spassky che in realtà, pur essendo un bel campione, di quella macchina non rifletteva al meglio, sotto l’aspetto della personalità, lo spirito e la potenza. Forse lo fui da entrambe. Ma perché dico questo?
Dieci anni dopo quel celeberrimo match, m’imbattei sulla rivista “Due Alfieri” (marzo-aprile 1982) in un’interessante intervista a Boris Spassky realizzata da A.F. Corrarello, della quale mi piace riportare qui qualche stralcio.
D.: Ti risulta che quel matto di Fischer sia sul punto di ritornare in scena?
(“Matto”? Ahi! Ma allora in pratica Corrarello era un precursore di Topatsius! … Eppure fu esattamente con queste parole che ebbe inizio l’intervista! n.d.A.)
Spassky: Tutto è possibile, anche se io personalmente ci credo poco. A me Bobby l’avrebbe detto senz’altro. Siamo ottimi amici e ci telefoniamo spesso…
D.: A distanza di 10 anni, ti brucia ancora la sconfitta di Reykjavik?
Spassky: Ho messo il cuore in pace già da un bel pezzo. La sconfitta l’ho accettata serenamente perché non c’è alcun dubbio che Bobby era in quel momento di gran lunga il più forte giocatore del mondo. Inoltre quella sconfitta mi liberò dall’enorme e quasi insopportabile peso psicologico che, credo, assilli tutti i campioni in carica. Lo stress era grande, gli avversari più accaniti che mai. Non potevo condurre certo una vita normale, ma dovevo impormi una severissima disciplina. Quei tre anni col titolo sulle spalle furono i più duri della mia vita.

D.: Boris, puoi fare un confronto tra Fischer e Karpov?
Spassky: OK, Conosci Borg e McEnroe? I due big del tennis? Ebbene, Karpov è come Borg, giocatore di rimessa, che attende che l’avversario si scopra per poi trafiggerlo. Come lo svedese, Karpov è uomo freddo, enigmatico, misterioso. Fischer, invece, era come McEnroe: temperamento esuberante, fantasioso e anche … un po’ eccentrico e capriccioso. Bobby sapeva inventare mosse e combinazioni che si possono definire tranquillamente geniali.
D.: Cosa pensi del diciannovenne Garry Kasparov, la nuova stella sovietica?
Spassky: Il ragazzo è certamente dotato di grande talento e probabilmente sarà il campione di domani, non prima di Timman però (1 a 1: una previsione azzeccata ed una sbagliata, n.d.A.). Ma occorrerà vedere quale trattamento gli sarà riservato dai dirigenti moscoviti e dallo stesso Karpov che, per esempio, non l’ha voluto al prossimo supertorneo di Torino. Kasparov, il cui vero nome è Weinstein, è di origine ebraica e ciò potrebbe nuocergli un po’. Anch’io, agli inizi della carriera, ero molto condizionato dall’Apparato, che sceglieva per me certi tornei e m’impediva di partecipare ad altri. Per emergere ho dovuto superare grossi ostacoli e non tutti davanti alla scacchiera…
Dai primi passi di questa intervista (ma non solo da questa, ovviamente) di netto emerge quella figura di Spassky che qualcuno ha definito, a mio parere correttamente, di “anti-eroe”.
Ricordo che il 2 di luglio del 1972, quando, dopo interminabili riunioni nella preparazione al “match del secolo”, sembrò che tutto stesse sul punto di saltare e la FIDE, per bocca di Max Euwe, si rivolse a Spassky dichiarando di esser pronta a squalificare Fischer, il russo replicò ad Euwe: “No, non lo fate!”.

Ecco, la filosofia di Boris Spassky (il russo ex campione del mondo oggi ottantaquattrenne, l’uomo che ha saputo essere amico del suo rivale non soltanto dopo che da lui fu battuto ma anche nonostante avesse una visione della vita in apparenza piuttosto diversa da quella dell’americano) pare concentrarsi intorno a ciò che, come analizzato nella citata opera di Schopenhauer, emerge da questi due pensieri di Aristotele dei quali trascrivo la trasposizione latina: “Quod dolore vacat, non quod suave est, persequitur vir prudens” (“L’uomo saggio persegue non il piacere, ma l’assenza di dolore”), ovvero anche “felicitas sibi sufficientium est” (“la felicità è di coloro che bastano a se stessi”). Non a tutti i personaggi celebri potremmo accostare questi pensieri, non certamente a Bobby Fischer (e neppure, forse, alla più parte dei meno celebri).
Sulla stessa linea di Aristotele si pronunciava un altro grande, il poeta romano Quinto Orazio Flacco (in Odi, II, 10): “Saevius ventis agitatur ingens pinus, et celsae graviore casu decidunt turres, feriuntque summos fulgura montes”, ovvero: “Più sovente è squassato dai venti il pino più alto, con più facile crollo rovinano le torri sublimi e le folgori colpiscono i monti più alti”.
Ora, a proposito di vette alte e torri sublimi (scacchistiche), mi viene alla mente questa splendida conclusione di un appena sedicenne Robert Fischer, tratta dal suo “My 60 memorable games”.
Fischer- Shocron
Mar del Plata, marzo 1959
Posizione dopo il tratto numero 38 del Nero (38… Dc7-d8)
Se per te si è dileguato il possesso di un mondo,
non addolorarti per questo, non è nulla;
e se hai acquistato il possesso di un mondo,
non rallegrartene, non è nulla.
Passano oltre i dolori e le gioie,
passa anche tu sul mondo, non è nulla.
(Anwari Soheili, poeta persiano del XII secolo)