Uno Scacchista

Annotazioni, Spigolature, Punti di vista e altro da un appassionato di cose scacchistiche

Il ragazzino Bobby Fischer, i ronzini e la lezione

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(Riccardo Moneta)
A New York il Manhattan Chess Club (fondato nel 1877) era un circolo di scacchi famoso e molto ben frequentato. Intorno a metà degli anni ’50 il suo segretario era Hans Kmoch (1894-1973, noto maestro internazionale, arbitro internazionale e autore di svariati testi di scacchi di successo.

Nel 1942 un infarto sorprese al Manhattan Chess Club il grande Josè Raul Capablanca, che si spense dopo alcuni giorni.

Il circolo aveva diverse centinaia di iscritti. Vi giocava negli anni ’50 gente del calibro di Sammy Reshevsky e Donald Byrne, incuranti del vociare che proveniva dalla sala attigua, dove un bel gruppetto di bambini se le dava di santa ragione sulle 64 caselle.

Poco meno bambino (ma stava fra di loro, altrimenti non avrebbe vinto nemmeno una partita) era il dottor Dan Jacobo Beninson, un argentino, funzionario dell’ONU e fisico, che lavorava con successo intorno a ricerche sugli effetti delle radiazioni atomiche.

Le sue partite contro un ragazzino allampanato non duravano più di un paio di minuti. Erano anch’esse “atomiche”, bastava un secondo a testa per una mossa. Quando ad un certo punto Dan rifletté per 4 secondi, il ragazzino allampanato gli si rivolse senza rispetto: “Ehi! Io non mi diverto se tu ci metti un anno a fare una mossa!”.

Quel ragazzino si chiamava Robert James Fischer. Nella immagine sotto il titolo vedete appunto un Bobby Fischer di 12 anni giocare al Manhattan Chess Club (foto Sam Falk/The New York Times).

In verità la mamma di Robert, Regina Wender, si era subito accorta della sua, poco normale, mania per gli scacchi. Inizialmente l’assecondò, tanto che scrisse all’American Chess Bulletin per chiedere dove poteva portare il figlio a giocare. Con lettera datata 13 gennaio 1951 (che qui vedete) l’editore del Bulletin le rispose indicandole la Biblioteca pubblica di Brooklyn, dove poteva trovare qualche altro bambino con cui giocare e dove di lì a pochi giorni si sarebbe esibito in simultanea un certo signor Pavey.

E Max Pavey (1918-1957) era un validissimo giocatore, del quale si ricorda una vittoria contro Paul Keres nell’incontro USA-URSS del 1954. Purtroppo fu prematuramente stroncato dalla leucemia.

In seguito però la signora Regina Fischer cercò in ogni modo di fargliela passare, quella mania per gli scacchi, in quanto si accorse che il figliuolo troppo stava trascurando la scuola. Lo portò da uno psicologo. Questi, anziché guarirlo, lo spronò a continuare a giocare. Perbacco!

E lo spronò anche Carmine Nigro, il Presidente del circolo di Brooklyn, il quale lo presentò nel 1955 a William Lombardy, giovane vincitore del Campionato dello Stato di New York. Lombardy lo allenò ben bene e dopo pochi mesi già Bobby era in grado di tenere simultanee. Nel 1956 divenne campione junior statunitense e nel 1958, a 15 anni, eccolo diventare il più giovane grande maestro della storia, rendendo d’un colpo popolarissimi gli scacchi negli Stati Uniti. Aveva conseguito il titolo dopo l’eccellente risultato (5° posto) del torneo interzonale di Portorose (1958), mentre l’anno successivo fu ottimo 5°, alla pari con Gligoric, nel Torneo dei Candidati giocato in Jugoslavia.

Fermiamoci un attimo a riflettere. Ci avete pensato alla serie di coincidenze che occorrono per diventare un grandissimo campione? Occorre anzitutto una madre dal fatidico nome di “Regina”, di origini ebraico/polacche, che ti regali (o forse a farlo fu la sorella maggiore Joan) un set di scacchi all’età di 6 anni, poi occorre lo psicologo che t’invita a continuare a giocare anziché a smettere, poi i vari allenatori/sparring/consiglieri tipo Beninson, Nigro, Pavey, Lombardy, tutta gente che ti fa da “scivolo” verso quel successo che hai immediatamente sognato già a 6 anni …

E poi occorre un papà che non ti getti la scacchiera dalla finestra, com’è successo a qualcuno che conosco … Eh, già, quale papà nel caso di Bobby? Il biofisico di origine tedesca Hans Gerhardt Fischer, che divorziò dalla moglie Regina Wender nel 1945 quando Bobby aveva appena 2 anni? Oppure il papà naturale, ovvero (come fu provato solo in un secondo momento) il fisico ungherese (un altro fisico!?) Paul Nemenyi, del quale le cronache non ricordano null’altro dopo quella provvidenziale “toccata e fuga” del 1943?

Fatto sta che Joan Fischer ci azzeccò, togliendo dalle mani del piccolo Bobby certi orribili puzzle con i quali lui era solito dilettarsi fino a 5 anni. Da quel momento gli scacchi non lo lasciarono mai: appena sveglio andava a risolvere dei problemi, a tavola aveva la scacchiera vicino al piatto, davanti alla TV aveva la scacchiera sulle ginocchia. Dal Manhattan Chess Club non usciva che dopo la mezzanotte, quando la madre, disperata, andava a prenderlo per trascinarlo a casa.

Comprendo la disperazione della signora Regina …

Il suo Bobby (e qui cito ‘Grandmasters of chess’ di H.Schonberg, 1975) “… Era un alunno mediocre … gli scacchi divennero il suo unico modo di realizzarsi … Mentre la più parte dei bambini della sua età leggeva fumetti e faceva i compiti, lui imparava a memoria le partite pubblicate su Sachmaty e su Chess Review… Poi lasciò la scuola superiore, al secondo anno, perché ‘la roba che ci insegnano non serve a niente’ … Andava in giro con le tasche zeppe di riviste di scacchi, che costituivano le sue uniche letture … Aveva imparato quel tanto di russo, tedesco, serbo-croato e spagnolo che gli serviva per capire le pubblicazioni di scacchi in quelle lingue… Era un ragazzo imbronciato, scontroso, diffidente … Nella sua totale dedizione agli scacchi non c’era posto per le ragazze, per gli amici, per le gioie della vita … Gli fu chiesto chi frequentasse, e lui rispose: ‘i giocatori di scacchi’ … Infatti nella sua vita esistevano solo due tipi di persone: i bravi giocatori e quelli mediocri, che definiva ‘ronzini’… La sua vita emotiva fu, per quasi tutto il periodo della crescita, una specie di trasposizione, probabilmente di natura sessuale, sulla scacchiera … Diceva, ancora nel 1957, di provare un fremito nel veder soffrire gli avversari (‘godo nel vederli contorcersi’) … In un servizio televisivo affermò che il suo massimo piacere negli scacchi era di stringere gli avversari in una morsa, stritolando il loro ego. Nel contempo, di ego si rafforzava il suo… Euwe disse: ‘Fischer studia scacchi giorno e notte, non l’ho mai visto fare altro’ “.

A 16 anni Robert Fischer andò via di casa, i rapporti con la madre erano ormai più che tesi, rotti del tutto. Viveva prevalentemente in albergo, dove era solito farsi dare delle stanze “senza vista”, perché la vista lo distraeva dallo studio degli scacchi. E dormiva fino a mezzogiorno, abitudine che, da quanto si sa, non perdette mai.

Il suo primo grande successo internazionale fu il 1°-2° posto, alla pari con Spassky, al torneo di Mar del Plata del 1960. Era ancora minorenne. Fu scritto che da bambino Bobby odiava perdere, e a volte piangeva dopo una sconfitta; soprattutto odiava perdere dai russi, che lui non sopportava perché “baravano” e “gli impedivano di dare il meglio di sé”.

Non sappiamo se si mise a piangere anche dopo aver perso a Mar del Plata la partita decisiva con Spassky. Forse no. Del resto Boris Spassky, come noto, è stato tra i pochi, nel mondo degli scacchi, giocatori e non, che sapeva come prendere Fischer, conosceva bene i suoi punti deboli, tecnici e della personalità.

Presentiamola allora questa nota partita, la partita fra i due futuri campioni. I commenti sono dello stesso Bobby Fischer, tratti dal suo inimitabile “60 partite da ricordare”.

Spassky – Fischer
Mar del Plata, 30 marzo 1960
(Gambetto di Re)

Beh, Spassky non era mica un ronzino e questa partita (sia pure tutt’altro che irreprensibile) è stata una bella e utilissima lezione. Fischer ne trasse sicuro giovamento.

Comunque, nonostante la cocente sconfitta, il diciassettenne Bobby seppe a Mar del Plata appaiare alla fine l’amico-nemico Boris in vetta alla classifica, con 13,5 punti su 15, ovverosia vincendo 13 delle restanti 14 partite. Mostruoso!

Il Manhattan Chess Club non esiste più: chiuse definitivamente il portone nel 2002.

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