Uno Scacchista

Annotazioni, Spigolature, Punti di vista e altro da un appassionato di cose scacchistiche

Gli scacchi dell’Inquisitore Pedro de Arbués

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Eugenio Lucas Velazquez, Autodafé. 1860

(Claudio Mori)
I rintocchi della campana della cattedrale erano risuonati fin dal primo mattino. Gli uomini, dentro le botteghe, avevano posato gli attrezzi. Le donne si erano fatte il segno della croce e avevano chiamato i bambini.

L’autodafé sulla piazza antistante la cattedrale stava per iniziare dopo la messa, le preghiere, la processione, le sentenze di penitenza o di condanna. Questa volta l’Inquisitore aveva voluto superarsi, offrire al suo mentore, ai sovrani e alla calca rumoreggiante un esempio di fede grandioso, un flusso continuo di cadaveri e dei loro odori di morte.

Un gloria tibi, domine, gloria a te, Signore, che nessuno avrebbe dimenticato.

Copertina JETAN di Fredrik Ekman, McFarland, 2022

Fredrik Ekman, nella prefazione del libro Jetan: Gli scacchi marziani di Edgar Rice Burroughs (McFarland, 2022), elenca una serie di partite a scacchi viventi tra cui una promossa da Pedro de Arbués e giocata da due monaci ciechi. Anche se nulla nella biografia del canonico regolare spagnolo Arbués avvalora ciò che probabilmente l’immaginazione ha supposto.

Pedro de Arbués aveva circa 33 anni quando tornò a Saragozza, nel 1474, dal Collegio spagnolo S. Clemente di Bologna, la città dei Bentivoglio dove agli studenti era vietato entrare nelle case da gioco eccetto che per misurarsi ad scacos vel ad tabulas, a scacchi e ai giochi da tavola, solo per ricreazione (e non per scommettere). L’anno in cui a Ferrara, a maggio, era nata Isabella d’Este la quale crescerà nutrendosi di scacchi e di manuali sul gioco ereditati dallo zio Borso.

Dieci anni dopo Arbués diventò, insieme a Pedro Gaspar Juglar, Inquisitore provinciale del Regno di Aragona per nomina del Grande Inquisitore Tomàs de Torquemada. Era il suo pupillo. Arbués si diede subito da fare con un fervore davvero encomiabile e già nel primo mese del suo ufficio tenne due autodafé. La punizione come segno di buona giustizia.

È come smuovere l’acqua melmosa di uno stagno e far emergere suggestioni, forse, campate in aria, ricordi di dipinti, di libri, di stampe popolari. Di incubi, dove reale e immaginario si fondono. Di fantasie, certo, degne di un grande romanzo gotico, del Monaco di Matthew Gregory Lewis, ambientato in un convento spagnolo di frati cappuccini proprio al tempo dell’inquisizione. Edifici diroccati, carceri segrete, torture, terrore. Quando l’orrore scaturisce dall’immaginazione. Quando l’assassinio diventa santità pescando nel bassofondo dell’animo umano.

Siamo nulla senza storie.

Tutto è narrazione.

Il desiderio di creare e raccontare storie ci guida perché è destinato a rimanere non consumato. La soddisfazione che ci viene incontro non è solo transitoria ma anche illusoria” fa dire a uno dei suoi personaggi Aashish Kaul nel romanzo Il Gioco della Regina.

Raccontiamo, allora.

Alessandro Magnasco, Torture inquisitoriali, 1710, Kunsthistorisches Museum, Foto Akg

Dovevano essere svuotate le carceri da quei marrani, ebrei convertiti che non avevano convinto i loro carcerieri della sincera rettifica dell’anima, per fare posto a nuovi processi. Ruote, schiaccia pollici, tenaglie lavoravano a pieno ritmo. Con mani legate dietro alla schiena, gli imputati venivano più volte sollevati in aria e fatti ricadere a terra. L’ingestione forzata di acqua calda serviva a purificare l’anima, come un lassativo.

L’Inquisitore trovò una soluzione rapida, efficace, persino estetica, a suo modo di vedere.

La notte precedente l’autodafé ordinò di tracciare sul selciato della piazza antistante la Cattedrale una grande scacchiera.

E l’indomani pomeriggio diede finalmente avvio al più gigantesco autodafé mai concepito.

Sulla scacchiera erano stati disposti a sferzate e a colpi di picche, tra i rimproveri e le offese di una folla densa e accaldata, donne dai capelli rasati, uomini scheletriti ricoperti solo di sacchi, creature con cappelli da somaro. Tutti con impresso nella carne o nell’abito una fiamma, il marchio della condanna a morte. Altro che inviati del Diavolo contro inviati di Dio come ne I miracoli della Madonna, poesie dell’abate francese Gualtiero di Coincy (1177-1236).

L’istituzione del tribunale dell’inquisizione spagnolo nel 1478 con tanto di bolla del papa Sisto IV fu un’idea della coppia regale, dei muy altos e muy poderosos Don Ferdinando (1452-1516) e Donna Isabella (1451-1504) di Castiglia e d’Aragona, convinti che quasi tutti gli ebrei convertiti avessero continuato a praticare il giudaismo di nascosto. Dunque gli ebrei, e pure i musulmani, dovevano o morire, o andarsene fuori dalla Spagna.

Essa manterrà per secoli il pregiudizio antiebraico, come evidente anche in un’acquaforte e un’acquatinta di Francisco Goya, Aquellos polbos e Nohubo remedio (“Non si può fare arrossire chi non si vergogna” è il commento), in Los Caprichos (1799).

Francisco Goya: “Non si può fare arrossire chi non si vergogna” (acquatinta da Los Caprichos, 1799)

Ferdinando II poté così dedicarsi con maggiore tranquillità a giocare a scacchi con il cappellano Juan Rodriguez de Fonseca e con la moglie Isabella senza il fastidio degli eretici. E senza immaginare che quando il 31 marzo 1492 emanò definitivamente l’editto di espulsione dai suoi regni di todos los jodios y judias grandes y pequenyos (tutti i giudei e le giudee grandi e piccoli) contribuì con un esodo di oltre duecentomila persone alla diffusione del gioco in tutta Europa, dal momento che proprio ebrei e musulmani erano tra i massimi cultori.

Oltre al fatto che proprio ebrei come il navarrese Abraham Ibn Ezra (1089-1164) e il catalano Açan Moses de Torrega, nel 1350, circa avevano insegnato con i loro versi il gioco agli spagnoli. E inoltre che in Spagna il prelato Luis Ramirez de Lucena, ebreo convertito, scriverà cinque anni dopo quel 1492 il primo trattato sugli scacchi, sull’amore e sulle donne, dalle quali comunque guardarsi.

Uomini con stampelle perché non potevano reggersi in piedi da soli erano le torri, uno in groppa a un altro i cavalli, come nei giochi dei ragazzi nei vicoli sotto casa, fanti reggevano una torcia con l’unica mano utilizzabile. Tra i pedoni vi erano famiglie intere, una maga, alcuni chierici che avevano sedotto le loro fedeli. Re con un crocefisso appeso al collo e regine con un pesante rosario in mano.

L’Inquisitore si alzò dallo scranno posto nella parte più alta del palco, protetto da un baldacchino di broccato giallo, e fece cenno al maestro di cappella di interrompere il noioso canto polifonico in latino dei monaci che fino a quel momento aveva accompagnato i preparativi.

Era ora di attingere al sublime.

Toccò sulla spalla il domenicano che stava alla sua destra, più in basso, in piedi. Il frate ebbe un sussulto. Il suo volto scavato si alzò verso un cielo che non poteva vedere, ma del quale poteva sentire l’insopportabile calore e l’umidità appiccicosa. Un refolo di vento mosse i lunghi, radi capelli bianchi. Una scossa più forte alla spalla lo riportò a chinare il capo e a pronunciare la prima mossa di quella partita alla cieca e a eretici viventi, ancora per poco.

I picchieri spinsero il pedone davanti al re di due quadrati.

Le regole del gioco erano già quelle dei poeti, non dei carnefici. Sessantaquattro strofe vergate su alcuni fogli dedicate alla muy poderosa Isabella di Castiglia che avevano come titolo Scacchi d’amore. Francesc de Castellvi, consigliere del Re, Bernat Fenollar, abate maestro di cappella, e Narcis Vinyoles, avvocato, l’avevano scritta intorno al 1474 precisando: Il nostro gioco vuole mescolarsi con uno stile nuovo e strano: guardalo bene […] Dì che la regina vaghi così, come tutti gli altri pezzi, tranne che a cavallo.

È grazie ai poeti che la carne del mondo si fa parola, è una loro opera.

Marte e Venere giocano a scacchi con la supervisione di Mercurio, pezzi rossi e verdi.

Parlano d’amore, un amore diverso da quello dell’Inquisitore, e introducono le nuove regole del gioco degli scacchi.

Il Pedone può avanzare di due case in apertura.

La Regina è padrona della scacchiera e del cuore del Cavaliere. Il fante corre sinistramente, forse perché ancora “quasi ogni vescovo abusa del suo ufficio per cupidigia”, come aveva scritto appena due anni prima, nel 1472, Johannes Gallensis nel suo manuale per sacerdoti e predicatori (Summa collationum, sive communiloquium).

Eugenio Lucas Velazquez, Autodafé. 1860

L’Inquisitore si girò verso l’uomo grassoccio alla sua sinistra, con inutili piccoli occhi, opachi e strabici. “Tocca a te, frate!”.

Il francescano non esitò un istante.

E i picchieri fecero avanzare di due caselle il pedone davanti alla regina.

“E adesso che intendi fare?” chiese l’Inquisitore al domenicano.

Quest’ultimo tracciò nell’aria il segno della croce. Le picche fecero il resto, in un amen, tra gli incitamenti della folla.

Un piacere diabolico.

Un delirio quando subito dopo fu la regina a far trascinare via il pedone, un povero vecchio stordito, prima di essere a sua volta minacciata da un cavallo e di correre a rintanarsi dov’era prima.

Sul selciato rimanevano solo sangue e cappelli d’asino di esseri annientati mossa dopo mossa, fantasmi ormai. E nell’aria l’odore di carne bruciata di alcuni di quell’esercito di disperati che in punto di morte avevano tentato di sfuggire alle picche conficcate nel petto dai soldati urlando di nuovo il loro pentimento. Clemenza, allora, voleva che fossero strangolati o decapitati prima di essere arsi. Il campanile era diventato improvvisamente silenzioso, e la folla era migrata con i suoi vizi nel torvo intrico dei vicoli della città.

Rogo di eretici in Spagna. Incisione del XVI secolo.

Che strano modo di pregare la Vergine.

Con l’armatura.

Pedro de Arbués indossava un elmo e, sotto la tunica, una maglia di cotta. Aveva paura anche delle ombre. E a ragione. Perché non poté evitare i colpi di coltello che lo portarono a morire tre giorni dopo, il 17 settembre 1485. “Una sinistra cospirazione” secondo alcuni. Tanto che la Chiesa premiò il suo impegno canonizzandolo nel 1867.

Ma perché Fredrik Ekman tira in ballo partite a scacchi viventi?

Per introdurne un’altra giocata in The Chessmen of Mars (Gli scacchi di Marte), libro uscito nel 1922 dalla fantasia di Edgar Rice Burroughs (1875-1950), ideatore anche del personaggio di Tarzan.

La copertina della rivista Argosy All-Story Weekly con la prima puntata di Chessmen of Mars, 1922, disegnata da Patrick J. Monahan

Davvero tutt’altra storia, come una boccata d’aria fresca, dove il gotico lascia il posto alla fantascienza in una rassicurante trasposizione di un immortale topos letterario, quello della dama in pericolo che il cavaliere riesce a salvare in un duello mortale sulla scacchiera. Nel caso di Burroughs, una storia d’amore planetaria.

Nella città di Manator, in una regione isolata del pianeta Barsoom (Marte) l’eroe Gahan, l’amata Tara, e il barsoomiano Ghek, grande testa e gambe da granchio, sono fatti prigionieri. Per ottenere la libertà devono combattere all’ultimo sangue in una versione marziana degli scacchi denominata Jetan.

Sulla casella si vince o si muore.

Le lame intrecciate scintillavano alla luce del sole, risuonando alle parate di taglio e di spinta.

Tra creature umane senza testa, mammiferi con pelliccia, insetti e rettili velenosi.

Solo un gioco.

Solo un’altra fantasia.


 

Claudio Mori, giornalista

 

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