[R] La questione delle regole italiane: brevi cenni storici e speculativi (1)
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Frontespizio della ‘NUOVA RISTA DEGLI SCACCHI’ (annate 1875-1876)
“La storia degli scacchi è ricca di passaggi estremamente importanti che ogni tanto è bene ricordare“.Con queste parole Alessandro Rizzacasa inizia un suo interessantissimo articolo che spazia da Philidor a AlphaZero, ragionando su aspetti storici e sugli scacchi che sono e sarebbero potuti essere. Un lavoro che pubblichiamo in tre parti.
(Alessandro Rizzacasa)
1a
La storia degli scacchi è ricca di passaggi estremamente importanti che ogni tanto è bene ricordare perché ci raccontano di quanto il gioco (così chiamato “del tutto impropriamente”, ammoniva Emilio Orsini [1], fondatore e direttore de -La nuova rivista degli scacchi-) abbia dentro di sé, forse nonostante l’evoluzione subita dall’imporsi dei software e della globalizzazione, una sorta di valore aggiunto che ne ha fatto un riferimento costante per gli esiti alti dell’intelligenza umana. In queste prossime righe cercherò di ripercorrere brevemente uno di questi importanti passaggi, che oggi può apparire marginale ma la cui osservazione attenta apre notevoli spazi di riflessione. Mi riferisco alla stabilizzazione ottocentesca delle regole degli scacchi, argomento intorno a cui si avviò per diversi decenni un grande dibattito, particolarmente sentito da noi italiani, ma che fu internazionale e che coinvolse quanti si occupavano delle norme a cui avrebbe dovuto ovunque rispondere il gioco. Come noto solo durante il XIX scolo si giunse ad una completa omogeneità delle regole degli scacchi che sono state molto diverse nello spazio e nel tempo e molto diversamente interpretate: in particolare le regole sull’arrocco, sulla trasformazione del pedone in ottava e sull’ en passant.
A cominciare soprattutto da Philidor emerse non solo il desiderio, ma un concreto movimento internazionale che si avviò a riconoscere un unico pacchetto di norme da tutti rispettate e pertanto utilizzabili in qualsiasi luogo, consentendo una benefica uniformità. François-André Danican Philidor (1726 – 1795) scrisse il notissimo Analyse du jeu des èchecs nel 1749 il quale conteneva le regole che poi si sarebbero imposte universalmente, non a caso chiamate “alla francese” da Serafino Dubois [2].

Tale osservazione è molto importante perché lo strepitoso successo della pubblicazione di Philidor e la sua fama di giocatore prodigiosamente forte contribuirono in modo sostanziale a stabilire un canone a cui in pochi decenni tutti gli scacchisti si adeguarono. Tutti, meno gli italiani. Infatti in Italia si continuò per molto tempo a seguire una scuola diversa da quella che si impose ovunque in Europa e oltreoceano, una scuola che aveva in tre autori di chiara fama i propri sistematizzatori; ci riferiamo a Giambattista Lolli (1698 – 1769), Ercole del Rio (ca. 1720 – ca. 1800) e Domenico Ponziani (1719 – 1796), il “trio modenese”, i quali in ragione della loro indubbia valentia di teorici [3] contribuirono a determinare un lungo distacco dell’Italia e dei suoi giocatori dal percorso seguito nel resto del mondo. Tanto fu lungo il distacco che la questione si risolse ufficialmente ben 150 anni dopo la pubblicazione dell’Analyse quando, nel 1881, a Milano, il campionato italiano venne per la prima volta giocato con le regole internazionali, in vigore ormai da decenni fuori dal nostro Paese. Le ragioni di questa situazione sono più d’una, non solo l’attaccamento alla tradizione nazionale che, per quanto di qualità, non per questo avrebbe potuto reggere alla necessità di adeguarsi al trend mondiale; la causa fu il ritardo della società italiana nel suo complesso la quale non aveva né poteva avere quell’energia presente in Inghilterra, in Francia e anche negli stati dell’Europa centrale. Pertanto le competizioni (match e tornei), i contatti, le relazioni, la pratica spicciola che là esisteva, da noi non c’era oppure era molto debole. Inserito in questa cornice lo scacchismo italiano rimaneva ancorato al suo passato e fece il segno della sua debolezza, l’attaccamento a regole non condivise, un illusorio punto di forza. Ma in cosa consisteva la diversità, tra l’Italia e il resto del mondo, sull’arrocco, la promozione del pedone e la presa al passo? Rispetto alla mossa che ancor oggi vien giocata (spostare il re di due case a destra o a sinistra in direzione di una delle due torri e successivamente muovere la torre, quella a cui il re si è avvicinato, nella casa compresa tra quelle di partenza e di arrivo del re) l’arrocco all’italiana “[…] veniva eseguito portando il Re in una qualsiasi casa della stessa traversa, a destra o a sinistra, e trasferendo la Torre in una qualsiasi casa, sempre della stessa traversa, rispettivamente a sinistra o a destra del Re [4]. Così ad esempio giocò Serafino Dubois con Adolf Anderssen a Londra nel 1862 in una serie di partite estemporanee [5].
La promozione del pedone era legata ai pezzi catturati dall’avversario: un pedone giunto in ottava non poteva, secondo i dettami del Ponziani, tramutarsi in un altro qualsiasi pezzo, ma solo in una figura che l’avversario aveva già mangiato. La presa al passo non esisteva, perché nell’eventualità che un pedone arrivasse in quarta (o quinta) traversa non aveva facoltà di catturare il pedone avversario spinto di due case sulla colonna accanto, che “passava” oltre; la mossa si chiamava infatti “passar battaglia”. Queste differenze si comprende bene come modificassero radicalmente la teoria del gioco, pertanto gli scacchi giocati in Italia potevano esser considerati una sorta di pratica eterodossa. Tutta questa situazione implicava l’impossibilità per i giocatori italiani che avessero avuto capacità, tempo e sostanze, di misurarsi a livello internazionale, costretti a impiegare le loro energie in una pratica così distante da quella che si svolgeva altrove. Inoltre Serafino Dubois, autentica nostra bandiera nazionale, riteneva che le regole italiane fossero “scientificamente” preferibili e pertanto non appoggiò alcuna idea, che peraltro era stata fatta circolare già dalla metà del secolo, di adeguamento dell’Italia al dettato internazionale. Non solo: era così convinto sostenitore delle regole italiane che propose una ulteriore radicalizzazione della faccenda immaginando una prospettiva la cui eccentricità fu chiara anche allora; a Dubois infatti parve plausibile proporre di blindare ancor di più l’Italia in una vera e propria autarchia scacchistica, affinché si tenesse una specie di congresso permanente pluriannuale che approfondisse in modo decisivo le linee teoriche discendenti dalle regole italiane: effetto di questo studio “matto e disperatissimo”, esaurita la ricerca, avrebbe dovuto essere, uscendo dal volontario isolamento, la dimostrazione universale di quanto fosse superiore la strada tracciata dal trio modenese rispetto a quella seguita dallo “straniero”. Idea che naturalmente rimase al palo, se non altro perché ormai la tendenza ampiamente maggioritaria riteneva si dovesse smettere di rimanere lontani dal consesso internazionale.
Ci sono a questo punto due domande che è possibile formulare: attraverso quali posizioni, per mezzo di quali interventi, con quale politica si giunse a rompere l’isolamento italiano? Quali riflessioni sono possibili confrontando le regole italiane e quelle internazionali? Infatti bisogna chiarire chi furono coloro che risolsero il problema delle regole, attraverso quale strategia essi riuscirono a imboccare la strada dell’adeguamento alle norme internazionali e, al di là dell’improcrastinabile necessità pratica di raccordarsi al resto del mondo, cosa resta dal punto di vista puramente teorico-speculativo del confronto fra le regole italiane e quelle che si sono affermate e ancor oggi sono vigenti.
1b
“Storia degli scacchi in Italia” [6], il fondamentale testo di Adriano Chicco e Antonio Rosino, sul punto non è esauriente. Si tratta la circostanza con un approfondimento insufficiente quasi solo registrando il mero dato che nel Torneo nazionale di Milano del 1881 venissero adottate le regole che tutti fuori d’Italia seguivano, abbandonando finalmente in modo ufficiale le norme del trio modenese. La questione infatti è di grande rilevanza e non sappiamo cosa sarebbe accaduto se non ci fosse stata la “Nuova Rivista degli Scacchi”.

Questa pubblicazione vide la luce a Livorno nel settembre del 1875 e, benché abbia vissuto a rischio chiusura per tutta la sua esistenza, i fondi per poterla pubblicare non mancarono mai (o quasi) lungo i 28 anni in cui uscì. I suoi esordi dipesero dalla magnanimità di Luca Giovanni Mimbelli, appartenente ad una ricchissima famiglia di commercianti di cereali, il quale mise a disposizione la somma necessaria ad allestire la rivista che raccolse attorno a sé molti personaggi di grande livello sociale nella Livorno dell’epoca e molti nomi illustri sparsi per lo Stivale.
La nascita del periodico fece emergere l’esistenza a Livorno di un gruppo di scacchisti di eccezionale valore se non sul piano della forza di gioco (sul punto bisognerebbe però circostanziare) certamente su quello teorico e su quello organizzativo.

Fondata dall’Avv. Emilio Orsini e dal Procuratore del Re Amerigo Seghieri [7], “La nuova rivista degli scacchi” rappresentò non solo il centro dell’interesse teorico del tempo, ma fece anche da collante tra le disperse realtà scacchistiche italiane. Forte di queste caratteristiche la rivista agì immediatamente col fine di scuotere e rinnovare l’assopito ambiente nostrano. Temi caldi furono la notazione scaccografica (descrittiva o algebrica?) e soprattutto le “regole” di cui sopra. Come ricordò in epoca tarda Serafino Dubois, i livornesi erano fortemente a favore, salvo poche eccezioni, del gioco internazionale e premevano perché in Italia si decidesse di uniformarsi ad esso. Sotto la direzione di Emilio Orsini, dando fuoco alle polveri di un confronto che fu molto ampio, appassionato e di notevole levatura, comparve nel giugno del 1878 un fondamentale articolo firmato Carlo Salvioli [8] (1849 – 1930) intitolato “Il pedone sospeso nel giuoco italiano”. Salvioli, in maniera molto decisa e con argomentazioni stringenti, dimostrava come la norma del pedone sospeso comportasse conseguenze contraddittorie che mettevano in conflitto tra loro le regole di gioco e ne deduceva che fosse errata non solo quella, ma il principio da cui discendeva e cioè che un pedone giunto in ottava potesse essere trasformato in un pezzo già catturato dall’avversario. Per esempio si ottengono posizioni in cui il pedone arrivato sull’ultima traversa, nel trasformarsi, impone all’avversario di mattarlo. Salvioli riprendeva una convinzione già espressa, una ventina d’anni prima, da Luigi Centurini [9], ma che non venne presa in esame da nessuno.
Adesso, verso la fine degli anni Settanta, sulle ali del successo del periodico livornese, l’articolo ebbe un grande effetto e si registrò una reazione significativa da parte del mondo scacchistico nazionale; l’obiettivo era anche, forse, fare in modo che nel II torneo nazionale programmato proprio a Livorno in quello stesso 1878 (dopo il primo, tenutosi a Roma nel 1875), si giocasse “alla francese”, abbandonando le specifiche regole nostrane.

Questo non avvenne perché l’articolo di Salvioli, pur dando il via ad una poderosa e lunga riflessione sulla questione, era troppo a ridosso del torneo stesso, il quale non poté pertanto diventare il primo ad essere giocato nel nostro Paese con le regole internazionali ma, mestamente, l’ultimo con quelle italiane. Il dato storico però non risiede nel torneo giocato ma proprio nel protrarsi degli interventi pubblicati sulla rivista che portarono chiarezza nello scacchismo italiano rilevando quanti da noi erano a favore delle norme internazionali e quanti non lo erano. Fu questo movimento collettivo, questo intervenire in modo articolato (e lo fecero tutti i maggiori giocatori e padri nobili dell’epoca) ad avviare la procedura che consentì al Torneo nazionale successivo, tenutosi a Milano nel 1881, di acquisire le regole internazionali senza che ci fosse alcuna riserva o discussione per questa scelta, come è possibile verificare nel libro del torneo curato da Mattia Cavallotti in cui quasi nemmeno si sfiora il punto. Riguardo la pratica di gioco, accantonando definitivamente a Milano il dettato del trio modenese, che aveva così fortemente condizionato gli scacchi in Italia, sulla questione si concluse anche la frattura tra l’Italia e il consorzio scacchistico mondiale. Diversa prospettiva è possibile aprire se vogliamo ancor oggi approfondire il problema da un punto di vista speculativo. È il tentativo che ci accingiamo a fare.
(continua domani)
[1] Emilio Orsini nacque a Livorno il 13 gennaio 1839 e morì a Montopoli Valdarno il 27 febbraio 1898, sembra accanto alla scacchiera. Era un avvocato. Si laureò in giurisprudenza nel 1861 e fino al 1884 esercitò nello studio del padre, in seguito si occupò di agricoltura e floricoltura nei suoi possedimenti di Montopoli. Come scacchista nasce negli anni Sessanta dell’Ottocento nei caffè di Livorno, luoghi eletti alle riunioni dei giocatori. Nel 1872 fece parte del gruppo che fondò il Circolo Filologico, all’interno del quale si formò una sezione per gli scacchi. Lo sviluppo del Circolo Filologico comportò il conseguente consolidamento di tale sezione da cui prese vita, nel settembre del 1875, la “Nuova Rivista degli Scacchi”, il più importante periodico scacchistico italiano dell’Ottocento, di cui Orsini è forse, tra i fondatori, il più significativo. Diresse la rivista prima con Amerigo Seghieri poi, quando questi dovette lasciare Livorno, da solo fino al 1881 e, successivamente, dal 1885 al 1892. Partecipò al torneo nazionale di Livorno del 1878 dove fu terzo nel torneo secondario. Ha pubblicato: Raccolta dei migliori problemi presentati ai concorsi internazionali dal 1877 al 1879, Livorno, 1879 – Raccolta dei migliori problemi presentati ai concorsi internazionali dal 1879 a tutto il 1880, Livorno, 1881 – Cento problemi di scacchi, Livorno 1885 – Curò la seconda edizione del Manuale del giuoco degli scacchi di Amerigo Seghieri pubblicata da Hoepli.
[2] Dubois è stato il maggior giocatore italiano dell’ottocento e, probabilmente, uno dei più forti giocatori del XIX secolo. Difese strenuamente le regole italiane.
[3] Ricordiamo, ad es., che Del Rio analizzò per primo l’impianto che fu successivamente chiamato Partita scozzese e scoprì la mossa 3… a6 nella Partita Spagnola; Lolli sottolineò alcuni errori commessi da Philidor nell’Analyse e Ponziani legò il suo nome alla sequenza 1.e4 e5 2.Cf3 Cc6 3.c3.
[4] A.Chicco, G. Porreca, Dizionario enciclopedico degli scacchi, voce “arrocco all’italiana”, Milano, Mursia, 1971
[5] Nella partita seguente Dubois pose il Re in h1 e la torre in f1. La partita, pubblicata la prima volta sulla “Nuova rivista degli scacchi”, fu giocata Londra il 29 giugno 1862 “[…] dal Dubois contro il celebre professore di Breslavia in casa del rinomato Löwenthal in seguito ad una discussione sul valore del Gambetto Muzio. Il prof. Anderssen non si sapeva capacitare come all’italiana (supponendo cioè il Re bianco al cantone) la difesa fosse ancor più facile che giocando alla francese.” (NRdS, anno I, 1° dicembre 1875, n°4, p.87, n.): Adolf Anderssen/Serafino Dubois (Gambetto di Re) – 1.e4 e5 2.f4 exf4 3.Cf3 g5 4.Ac4 g4 5.0-0 (Rh1-Tf1, una delle possibilità dell’arrocco all’italiana) gxf3 6.Dxf3 Ah6 7.d4 Dh4 8.Cc3 8… Ce7 9.Ad2 d6 10.Tae1 Cbc6 11.Cb5 Ag4 12.Db3 0-0-0 (Rb8-Tc8 arrocco all’italiana) 13.Ac3 f5 14.e5 dxe5 15.d5 Cd4 16.Cxd4 exd4 17.Axd4 The8 18.Te6 18…f3 19.g3 Dh3 20.Tf2 f4 21.Aa6 b6 22.Txb6+?? 22…cxb6! 23.Axb6 Cxd5 24.Axa7++ Rc7 25.Dc4+ Rd6 26.Abbandona
[6] Adriano Chicco, Antonio Rosino, Storia degli scacchi in Italia, Venezia, Marsilio Editori, 1990
[7] Amerigo Seghieri nacque a Montecarlo in Valdinievole il 29 agosto 1831 e morì a Pescia l’ 11 febbraio 1893. Si addottorò in lettere e in giurisprudenza; magistrato, fu Procuratore del Re in varie città. Nel 1875 conobbe a Livorno dove aveva incarico Emilio Orsini e con lui fondò e condiresse per un anno la “Nuova Rivista degli Scacchi”. Continuò nel tempo a collaborare con la rivista scrivendo articoli di varia natura: teorici, storici, eruditi. Nel 1880 diede alle stampe la Guida elementare per apprendere il giuoco degli scacchi di cui uscì una seconda edizione nel 1889. Per l’editore Hoepli preparò il Manuale del giuoco degli scacchi, un libro di cui uscirono diverse edizioni per molti anni (https://unoscacchista.wordpress.com/2017/12/20/i-magnifici-7-1-manuali-hoepli/).
[8] Carlo Salvioli nacque a Venezia l’ 11 novembre 1848 e si spense a Mirano il 29 gennaio 1930. Di professione notaio, la vera passione della sua vita furono però gli scacchi. Pur essendo stato anche un forte giocatore (vinse nel 1881 il torneo nazionale di Milano, diventando praticamente campione italiano) è noto principalmente come autore dell’opera “Teoria e pratica del giuoco degli scacchi”, il cui primo volume fu pubblicato a Venezia dalla tipografia Ferrari nel 1885. Salvioli scrisse, Il quarto torneo scacchistico italiano in Venezia (1883), che fu la sua prima opera a stampa. Nel 1928, quando era già ottantenne, pubblicò con l’editore Ammanati di Firenze “La difesa indiana” e “Le varie difese del Nero in risposta a 1.e4-e5”, poi nel 1929 con lo stesso editore “I giuochi irregolari” e nel 1930 “La partita del pedone di donna”. Rilevò e diresse nell’ultima parte della sua esistenza la “Nuova Rivista degli Scacchi” che però chiuse le pubblicazioni nel 1903. Fu acceso polemista: ebbe forti contrasti con Serafino Dubois e Luigi Centurini. Salvioli fu anche un compositore di studi. Lasciò numerose sostanze in beneficenza.
[9] Luigi Centurini fu un nome di primaria importanza nello scacchismo italiano dell’Ottocento. È rimasto nella storia degli scacchi soprattutto come compositore di studi e teorico. Nacque a Genova il 24 maggio 1820, si laureò in giurisprudenza ma non esercitò mai la professione dedicandosi a studi di economia politica e amministrativa. Come scacchista fu considerato uno dei più forti analisti nel campo dei finali. Già nel 1853 aveva pubblicato a Genova un opuscolo intitolato Giuoco degli scacchi. Del finale di Torre e Cavallo contro Torre, in cui aveva analizzato varie posizioni di Forth e Assalini (un professore genovese già più che settuagenario nel 1853). Scrisse uno studio sul Gambetto grande, che pubblicò sull’«Eco della scienza» nel 1865. Collaborò a riviste italiane e straniere dell’Ottocento; suoi articoli apparvero su «La Régence» del 1856 e su «The chess montly» del 1857. Nel 1856 fu fondato a Genova, presso il caffè Bella Napoli in Piazza Soziglia, il Casinò degli scacchi, un circolo di cui Centurini divenne presidente. Vi convergevano i migliori giocatori della città, tra cui il celebre De Saint Bon, in quel periodo direttore dell’osservatorio astronomico. Centurini fu in corrispondenza con i maggiori studiosi del suo tempo, in particolare con Jänisch e con Guretzky-Cornitz. Nella prefazione della «Strategie raisonée» Durand, Metton e Preti (1867) ringraziarono Centurini per l’aiuto efficace ricevuto da lui come da Morphy, mentre Salvioli gli dedicò il trattato dei finali di partita (1888). Molte sue posizioni furono riportate nel Corso di Tonetti e Ferrante. Sostenne la necessità di difendere il Passar battaglia all’italiana contro la regola della Presa al passo, mentre era contrario alla regola della sospensione del pedone in ottava traversa e possibilista sulla trasformazione a Donna. Negli ultimi anni della sua vita andò allontanandosi dall’ambiente scacchistico, irritato probabilmente anche dal sempre maggiore ruolo svolto dalla teoria nel gioco, che gli sembrava soffocasse originalità e intuizione; propose addirittura di estrarre a sorte la disposizione iniziale dei pezzi, in modo da mettere in condizione i giocatori di confrontarsi basandosi più sulla propria pura abilità che su conoscenze pregresse (idea ripresa più volte in seguito, anche da Robert James Fischer). Morì a Genova il 10 novembre 1900.
(continua dopodomani)
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