Uno Scacchista

Annotazioni, Spigolature, Punti di vista e altro da un appassionato di cose scacchistiche

L’acido lattico degli scacchi

7 min read

(Luigi Mlejnas)
Altri tempi.
Ora domina l’egocentrismo agonistico che ignora gli epici perdenti, così come se ne infischia dei pionieri precursori di tutto.
Icone sfocate senza sostegni farmacologici.
Michail Tal non aveva nemmeno fatto in tempo ad avere il ventre gonfio dell’alcolista prima di schiattare.
Il latte che Fischer ingurgitava era già la constatazione che gli anni mitici erano finiti.
Lo devo confessare.

Non gioco più a scacchi da quando la dipendenza da un Negroni ben fatto, da una cena a base di pesce e vino bianco alla giusta temperatura ebbero il sopravvento sul tempo che l’orologio ancora mi concedeva in un torneo iniziato alle 17,30 e che minacciava di protrarsi oltre la prenotazione al tavolo del ristorante, le 20.

Quanti anni sono passati? Non lo ricordo nemmeno.
Fu da quando quel ragazzino, il mio avversario in t-shirt gialla e braghe corte rosse, i cui occhi di ghiaccio mi avevano fissato una sola volta, mi batté in venti mosse.

Il giovane Tomofey Bokhnak (Praga 2022, foto di NeuVedeno)

Non lo scorderò mai quel torneo internazionale.
Internazionale perché si volgeva in un capannone vicino a un mare stupendo, di smeraldo, pieno di gente che voleva farsi una settimana al mare accontentando anche la moglie, o la fidanzata.
Almeno per quanto riguarda il sole, i bagni.
Perché l’adrenalina, come il cortisolo, inibiscono l’attività sessuale.
L’ansia di prestazione al torneo gioca brutti scherzi nella camera d’albergo.
E anche la promessa cenetta romantica viene rovinata dalle quattro ore e mezza di partita.
Alle 22 si ha solo voglia di andare a dormire.

Cavolo però, alla sedicesima mossa stavo bene, direi che ero in leggero vantaggio.
Ho pensato trentacinque minuti se muovere l’alfiere o la torre.
Tutta la tensione erotica in quell’alternativa.

Ovviamente ho sbagliato.

Io ho ancora l’adrenalina addosso che non mi fa dormire.
Prendo qualche goccia di melatonina.
Telefono anche al bar per un Negroni.
Mi raccomando, poco ghiaccio.
Ho bisogno di dormire dopo una partita.
Tanto posso stare a letto fin quando voglio domattina, mentre lei è in spiaggia.

Colletti bianchi affetti da ipertrofia edonistica che uniscono il gioco alla vacanza.
Scacchismo turistico, lo chiamano nell’ambiente.
Come quelli che gettano via un sacco di energie in estenuanti allenamenti per andare a fare i buffoni alla maratona di New York.

Dopo aver fatto la sua mossa, quella peste se ne va a vedere le partite degli altri giocatori.
Torna, muove, sparisce.
Ha già vinto prima di iniziare la partita, quel piccolo bastardo venuto da chissà dove.

A me fanno male entrambe le gambe per l’acido lattico che si è accumulato nei polpacci, come se avessi fatto una maratona.
Mai corso in vita mia se non per prendere al volo un tram.
Il mondo dell’atletica può andare benissimo come paragone per gli atleti degli scacchi.
Per smaltire l’acido lattico bisogna idratarsi bene.

Ecco perché il Negroni è urgente.

Gli atleti degli scacchi, quelli che attendono spasmodicamente le festività natalizie, quelle pasquali, quelle di ferragosto per farsi il torneo a nove turni, seguono diete più equilibrate, riesaminano la partita tra un riso in bianco e una scaloppina di pollo.
Bevono acqua minerale liscia prima del turno successivo.
E la sera, nella sala dell’albergo, si ritrovano per parlare dei tornei precedenti.
Ricordi quando andammo al torneo di Monaco in treno e invece di dormire giocammo tutta la notte?
Non hanno apparecchi elettronici da consultare durante il torneo per battere l’avversario.
Solo qualche portafortuna tenuto in tasca, o la stessa biro per segnare le mosse, o lo stesso gilet.

Per questo, mentre attendo che il cameriere bussi alla porta con ‘sto Negroni, mi è venuta in mente la storia di Ezio.

Lo ricordo fin dalle prime partite al circolo, dentro quella stanza maleodorante di sudore e sigarette dove alle pareti erano appesi ritratti di persone che a lui non dicevano nulla allora, né dopo.
Chi gioca, gioca.
E basta.
Ezio aveva fatto come tutti noi il corso tenuto da insegnanti la cui vita agonistica era stata segnata dalla mediocrità.
Avevano battuto i tornei di provincia alla ricerca del titolo almeno di Candidato Maestro, senza riuscirci.
E ora erano alla ricerca di un riscatto per interposta persona.
Dateci dentro, ragazzi, e vedrete che entro un due anni quello lì, quello che sta giocando in fondo alla stanza solo con chi desidera perdere, ve lo mangerete.

Anche Ezio giocava e basta.
Diceva che la mossa del cadetto del mare, quella che alla quinta mossa sacrifica la regina per prendersi un pedone con il cavallo e poi dare matto nelle due mosse successive, era la sua preferita.
Roba da principianti comunque.
Ezio non sapeva né chi né quando l’avesse giocata quella mossa.
Sapeva una cippa e nemmeno gliene importava.
A lui come agli altri.
Giocava e basta.

Ezio, quando eravamo ragazzi, sapeva di Coca-Cola.
La madre gliela dava perché non si disidratasse, non venisse colto da crampi da acido lattico.
Era l’inizio degli interventi farmaceutici domestici.
Per reggere le ore della sfida, diceva la mamma, che nella borsa teneva sempre anche un Kinder Bueno al cioccolato.

Quando Ezio guardava l’elenco dei risultati del primo turno, nel foglio appeso con una puntina alla porta, era felice del fallimento del compagno del suo stesso corso che una settimana prima lo aveva battuto in una partita blitz, durante un intervallo della lezione.
Cioè del mio fallimento.
Era già cattivo.
Quella cattiveria necessaria per chiunque voglia vincere.
O almeno provarci.

L’allenatore aveva intuito le sue potenzialità, come il professore di educazione fisica delle scuole medie che ha visto in uno degli allievi il futuro centometrista, quello che lui non è mai diventato.
E lo aveva subito presentato a un preparatore più esperto, un amico di gioventù, uno di quei missionari laici votati al fallimento che, lui sì, ai campionati italiani poteva dire di avere almeno partecipato.

Ezio andava bene a scuola, era tra i migliori.
In matematica, poi, era un genio.
Era stata sua madre a iscriverlo al corso di scacchi.
Quello di nuoto costava di più.
Comunque sempre meglio che imparare a usare il coltello a serramanico.

Io, invece, me la cavavo grazie alla benevolenza dei professori.
Ezio si preparava come un fondista, più che un centometrista.
Migliaia di mosse da imparare a memoria, da ripetere ogni giorno, da sognarsele anche la notte.
Molto disciplinato, nessuna distrazione.
Già a 11 anni partecipava ai campionati di società raggiungendo buone posizioni nella classifica generale.
Gli avversari, adulti stanchi e disincantati, gli accarezzavano la testa e gli sorridevano.

Erano arrivate le prime coppe da mettere sul mobile del salotto, accanto ai ritratti dei nonni e di papà e mamma quando si sposarono.
Anche i primi soldini.
I montepremi erano appena qualcosa in più di quanto gli passavano i genitori.
Ma poteva comprare un paio di sneakers migliori di quelle che calzava.
Così si era messo in testa che non era necessario guadagnarseli lavorando, i soldi, come tutti.
In cambio di giorni sempre identici, ripetitività delle aperture, del medio gioco, dei finali.
In attesa di un capolavoro che non avrebbe mai raggiunto.

Utopie disperate.
Ego smisurato.

Io avevo gettato la spugna molto presto, invece.
Giocherò solo per divertirmi, avevo annunciato al mio allenatore.
Perché in questo sport mica ci sono le Fiamme Gialle che ti danno da mangiare, né qualcuno che ti assicura un posto in banca, dopo, quando un ragazzino sbucato da chissà quale angolo ti darà scacco matto in venti mosse senza nemmeno guardarti in faccia.
Allungandoti una manina che vorresti solo stritolare.

Raggiunto invece un buon livello agonistico e girato per qualunque buco del globo a intascare qualunque premio di consolazione, raramente il primo, comincerai a vivere solo di lezioni ai ragazzini, future promesse, come te.
Il senso di frustrazione, dell’inutilità.
Qui, negli scacchi, c’è solo l’Elo, il punteggio che acquisisci o perdi vincendo o perdendo.
Solo l’Elo t’incorona Maestro o Grande Maestro per fregarti, per farti credere che da lì in poi puoi vivere continuando a giocare.
Ma quell’altro mondo che c’è dietro la porta non è un bel mondo, te l’assicuro.

Trovati un lavoro, gli scacchi non pagano, ripetevano i miei genitori.
Come in atletica.
Grazie alla concretezza operaia della mia famiglia, alla fine ho dato addio a una vita precaria, a una carriera di mediocrità per quel posto in banca.

Foto di Michael Hanke

Ezio no.
Ha voluto continuare.
Il suo blog è pieno di foto di podi più o meno anonimi.
Coppe in mano, Medaglie al collo.
Tonnellate di egocentrismo agonistico, sempre a fianco dei fuoriclasse che nessun telegiornale racconterà mai.
Il fallito che sarà.

L’allenatore diceva che se avesse perseverato la Federazione lo avrebbe inserito nella rosa per le Olimpiadi.
Già la Federazione.
Nessuno sa nemmeno dove abbia sede.
Forse nemmeno il suo presidente, perché un presidente l’avrà pure, come tutte le federazioni.

Un giorno anche Enzo si è incagliato.
No so dire né come né quando.
Una delusione d’amore, forse.
Precario in tutto.

Bussano alla porta. Chi è? chiedo, come se non lo sapessi già.
Che succede?
Niente, cara, ho chiamato il servizio in camera.
Ma va’ a quel paese…
Sì. Domattina verrò con te in spiaggia. Sai?

Andai sul balcone, il nero del mare di fronte.
Portai all’orecchio la radio accesa dal telefonino.

Sentimenti sprecati, significati infranti… un posto dove nascondere le lacrime che piangiamo

Alla fine del brano una voce femminile, calda, avvolgente, annunciò: “Avete ascoltato Ghosts Again dall’album Memento Mori del 2023 dei Depeche Mode, dedicato al loro amico musicista e scacchista Andy Fletcher dopo la sua scomparsa.”


Luigi Mlejnas: Mlejnas, è il nome di una delle due regioni immaginarie nel racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius in Finzioni, del grandissimo Borges; Luigi Mlejnas è, appunto, una finzione.

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2 thoughts on “L’acido lattico degli scacchi

  1. Bel racconto, spero di leggerne altri di questo misterioso autore su questo blog! E nel frattempo è ora di riaprire qualche libro di Borges, ché è da troppo tempo che non leggo qualcosa di suo.

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