Uno Scacchista

Annotazioni, Spigolature, Punti di vista e altro da un appassionato di cose scacchistiche

“Mi proibiscono di giocare, ma non di sognare” (Eugene Znosko-Borovsky)

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(Riccardo M.)
Gli scacchi sono una malattia incurabile. Quando ti prende, ti può anche dimenticare per anni, persino per decenni, ma non ti lascia mai definitivamente: è in letargo e ti riafferra prima o poi. E a volte sono guai quando ritorna e ti riafferra, perché gli anni che passano non ti consentono di essere lo stesso di prima, di ottenere gli stessi risultati di prima, di vivere nel mondo degli scacchi come prima. E se la malattia degli scacchi non ti ha mai dimenticato, ugualmente alcune vicende della vita possono allontanarti inesorabilmente dal gioco vivo e dai tornei e dai circoli.

Leggiamo insieme la testimonianza di un forte giocatore della prima metà del ‘900, il francese di origine russa Eugene Znosko-Borovsky, il grande vincitore del Torneo di Parigi del 1930. A lui abbiamo qui già dedicato un articolo.

Eugene era nato a Pavlovsk, nei pressi di San Pietroburgo, nel 1884, ed è morto a Parigi in un sanatorio nel 1954. In un sanatorio, ma di Vienna, era morto anche un altro nome molto noto, il rumeno Adolf Albin nel 1920.

Znosko-Borovsky così descriveva le sue giornate scacchistiche in sanatorio (soffriva probabilmente di tubercolosi) in un articolo da lui scritto per “L’Italia Scacchistica” nei primi mesi del 1953 (già dal 1952 aveva iniziato ad inviare articoli sia a “L’Echiquier de Paris” sia al nostro mensile):

Chi vive in sanatorio cerca di distrarsi come può: io personalmente mi dedico al giuoco degli scacchi. E’ vero che, affinché non mi affatichi, mi proibiscono di giocare, ma io aggiro le difficoltà rigiocando le partite altrui e studiando le aperture; solo che, recentemente, durante lo studio sulla difesa Alekhine, me ne sono appassionato a tal punto da perdere il sonno. A notte alta, con gli occhi chiusi, senza scacchiera, facevo passare e ripassare decine di varianti, cercando ad ogni costo la vittoria forzata; e quando le posizioni sembravano di patta, spingevo l’analisi sino al finale, sino a fare una seconda Donna, il che richiedeva spesso dozzine e dozzine di mosse. Da allora ho deciso di analizzare soltanto per mio divertimento, elaborando belle combinazioni e posizioni piacevoli, senza affaticarmi nella ricerca della correttezza assoluta”.

Era questa la premessa di un articolo dal titolo “Evviva il Fegatello!”, il tanto discusso, in passato, sacrificio nella Difesa dei Due Cavalli 6.Cxf7!? (1.e4 e5  2.Cf3 Cc6  3.Ac4 Cf6  4.Cg5 d5  5.exd5 Cxd5?!  6.Cxf7!?)

Un cavallo rossastro?? E’ lo “spinoso” cavallo del Fegatello …

Premessa di Eugene era “Non ho affatto intenzione di dimostrare che il Bianco ottiene in ogni caso un gioco superiore, ma mi preme soltanto verificare se ha possibilità di attacco in base alla considerazione che egli può fare intervenire rapidamente in azione 5 pezzi (Donna, Torre, due Alfieri e Cavallo), mentre il Nero non dispone per la difesa che di tre pezzi (Donna e due Alfieri)

Eugene faceva riferimento, nella sua analisi sul Fegatello, ad un principio generale che può essere sempre valido, questo: “Voler esaminare tutte le difese sarebbe inutile e si cadrebbe nel ridicolo di essere, come diceva ironicamente Chigorin, una “fabbrica di varianti”. L’essenziale è invece di trovare un piano generale di difesa, il che nel Fegatello non sembra tanto facile per il Nero, mentre l’idea dell’attacco bianco è ben delineata”.

Eugene era uno degli ultimi “romantici degli scacchi”, era già un po’ fuori dal tempo nella seconda metà del XX° secolo, mentre avanzava inesorabile la scuola sovietica dei Botvinnik e degli Smyslov ….

Eugene ammirava i giocatori che si cimentavano nel Fegatello: “Il Bianco ha a disposizione dei seguiti che portano a belle combinazioni, a dimostrazione della ricchezza delle sue possibilità e della precisione richiesta alla difesa”.

E ancora:Io non vado alla ricerca della correttezza assoluta (in ogni momento, forse, si potrebbero trovare delle mosse migliori) e il mio articolo non è tanto un’analisi teorica quanto una rassegna di brillanti partite-miniature, che terminano con matti spettacolari”.  

E quindi riportava, a sostegno delle sue affermazioni, alcune belle varianti concluse con uno scacco matto da parte del bianco. Una era, ad esempio, questa, una partita “tutta immaginata di notte, senza scacchiera”:

Ma se il Nero scegliesse di giocare 13… Rc5, cosa accadrebbe, mi son chiesto? Questo:

Una cosa meravigliosa! Il Re viene mattato su due diverse estremità della scacchiera, come derivazione da un’unica difesa”. Eugene concludeva il suo lavoro con: “Morale? La teoria ha sempre ragione … in teoria, ma la partita pratica è un’altra cosa”.

Eh, sì, la pratica … La pratica ad occhi chiusi, ripassando decine di varianti, senza scacchiera, senza affaticarsi, senza cercare la correttezza assoluta, nella inevitabile non troppo lunga attesa del sopraggiungere di uno scacco matto forzato, che arrivò per lui meno di un anno e mezzo più tardi, nella notte del 30 dicembre del 1954. Quello stesso anno Botvinnik aveva difeso a Mosca il suo titolo mondiale dall’assalto del giovane Smyslov. E lì non si era visto nessun “Fegatello”.

Oggi i libri sulla teoria delle aperture sono in genere impostati molto diversamente rispetto agli ideali del romantico Eugene Znosko-Borovsky. Ma nessuno riuscirà mai a proibire di sognare a chi vorrà per sempre sognare, perché gli scacchi restano anzitutto uno spettacolare gioco di sogni; non per niente essi sono, come scrive Paolo Maurensig, “il gioco degli Dèi”.

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