Uno Scacchista

Annotazioni, Spigolature, Punti di vista e altro da un appassionato di cose scacchistiche

[R] Storia del “Caffè Fassi”

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R I S T A M P A

(Riccardo M.)
Roma, Corso d’Italia n° 45.  Si trovava qui il Caffè Fassi, della signora Annunziata Fassi, che è stato a lungo, nel XX° secolo, punto di riferimento e ritrovo per artisti e pittori, e altresì per amanti del liberty e degli scacchi, del gelato e del caffè.

Tutto iniziò nel 1933, al piano terreno della Villa Calderai (di proprietà dei principi Torlonia), a fianco di dove oggi è la “Rinascente” di Piazza Fiume.

Annunziata era la figlia di una intraprendente ragazza palermitana (Giuseppina) e di un cuneese di Saluzzo (Giacomo), che erano venuti a vivere a Roma intorno al 1876 e che nel 1880 ebbero l’intuizione di aprire in via IV Novembre un punto vendita di birra e di ghiaccio. E la salita di via IV Novembre, snodo di passaggio obbligato per le carrozze in transito fra Viminale, Esquilino e Quirinale, zone di notevole espansione all’epoca, era l’ideale per il successo di un’attività commerciale come quella. Secondo lo storico R. Bartoloni (autore de: “I 130 anni di casa Fassi”, Roma 2010) quell’esercizio dei coniugi Fassi doveva trovarsi precisamente al civico 155, d’angolo con via delle Tre Cannelle.

Quello che vedete nella foto seguente è invece Paolo Vesco-Fassi, figlio di Annunziata.

Il ghiaccio dei Fassi, venduto in colonne o tritato a fare le famose “grattachecche” romane, riempì una bella pagina di storia cittadina quotidiana. Il fratello di Annunziata, Giovanni, era divenuto, alla morte del padre (1902), un personaggio assai noto: era il gelatiere della casa reale e dell’aristocrazia. Il sorbetto-gelato (in seguito soltanto “gelato”), nato da un felice e non del tutto casuale connubio Piemonte/Sicilia, aveva conquistato Roma!

Il Bartoloni narra qui un simpatico episodio. Giovanni Fassi nel 1903 aveva appena 23 anni ed era già così ben introdotto nella Casa Reale che tutta la sua famiglia sarebbe stata comodamente “sistemata” negli anni a venire. Il caso, però, volle che a corte venne emanata quell’anno un’ordinanza che proibiva a tutto il personale addetto alle cucine di portare barba e baffi. Giovanni decise subito che i suoi baffetti non se li sarebbe mai tagliati.

Si licenziò e, con la liquidazione avuta, insieme alla madre Giuseppina aprì in via S.Agnese in Agone (angolo piazza Navona, dov’è più o meno oggi il bar “Tre scalini”) il Caffè-gelateria “Nino all’Agonale”, che subito trovò notevole accoglienza e successo e che nel 1907 fu rilevato dal fratello Salvatore.

Giovanni si trasferì di nuovo, nel 1910, stavolta in via Piave, numeri 9/11/13, mentre si perse nell’oblio il decadere dell’attività di Salvatore.  E via Piave divenne presto un punto d’approdo dei buongustai del rione, tra i quali i poeti D’Annunzio e Trilussa. Lì nacque “Ninetto”, il gelato con lo stecco, e la fantasia della moglie di Nino, Giuseppina junior, si sbizzarriva con fantasiosi prodotti.

C’è da aggiungere qui due parole sul ghiaccio utilizzato per i sorbetti/gelati. Naturalmente, allora non c’erano macchinari che lo producevano. Ma c’era la neve, e di certo in maggior quantità di oggi. La neve veniva immagazzinata d’inverno nelle montagne intorno a Roma, in apposite cavità foderate di paglia (dappertutto avveniva pressappoco così) e di lì la neve era trasportata in città, lungo le vie consolari, a bordo di apposite carrozze trainate da muli, le cosiddette barozze”.

Si calcola che a Roma giungessero in un anno oltre 250 tonnellate di ghiaccio. Il ghiaccio ritenuto di migliore qualità proveniva dal territorio di Monteflavio, ai piedi del Monte Pellecchia (Monti Lucretili), da un’altitudine di circa 1300 metri. Ecco perché al di sopra di Monteflavio c’è ancora la chiesetta della “Madonna della Neve”: infatti l’intero paese in inverno si mobilitava a pregare per l’arrivo della neve e per la sua raccolta. Da Monteflavio e dai paesini limitrofi le barozze cariche di ghiaccio scendevano verso la Salaria e di lì in città, incrociando un altro genere di trasporto, quello del sale, che da Ostia invece saliva per essere trasportato in Sabina e in Abruzzo (il nome di via “Salaria” deriva, appunto, dal sale).


Quando ero bambino abitavo, fino al 1957, a circa un chilometro dal Caffè Fassi di Piazza Fiume, quello dell’Annunziata. Eravamo, per la precisione, in una pertinenza di Villa Grazioli Lante della Rovere (dove mio nonno svolgeva il suo lavoro di cuoco), quasi all’incrocio fra la Via Salaria e Viale Regina Margherita, proprio (guarda un po’!) lungo il vecchio percorso delle “barozze”.

Qualche volta, specie la domenica pomeriggio nella bella stagione, con i miei si andava lì, “in centro” dicevano loro, ad assaggiare “un gelato speciale al Caffè Fassi”. Ho un vago ricordo di quella atmosfera magica che vi regnava, quasi uno spaccato proveniente dagli anni Trenta e sopravvissuto per miracolo agli eventi e ai mutamenti delle abitudini giunti a seguito della Seconda Guerra, un ricordo simile a quello che si potrebbe avere di consumate stampe in bianco e nero.

Nello stesso tempo mi sentivo affascinato da quanta gente passeggiasse lì “in centro” in quelle ore domenicali e dalle splendenti nuove Fiat e Alfa Romeo che stavano soppiantando le vecchie Balilla nere. Ma era normale che ci fosse un brulichio di persone anche alla domenica: in quegli anni in Italia la Televisione era ancora un apparecchio assai costoso (si contavano appena due o trecentomila abbonati), mentre Nicolò Carosio, Enrico Ameri e Roberto Bortoluzzi soltanto a partire dal 1959 avrebbero iniziato a tenere tanti italiani incollati alla Radio con “Tutto il calcio minuto per minuto”.

La famiglia Fassi al completo -al centro con la stella è Annunziata- nell’anno 1905

Il Caffè Fassi era una piccola meraviglia, con la sua grande e lucida caffettiera d’ottone, il bancone scolpito proveniente dall’antico Caffè Biffi di Milano, gli specchi molati su cui erano disegnate leggiadre figure femminili avvolte in ampie e morbidi vesti, i tavolini di marmo con i piedi di ferro verniciato. La sala della gelateria era chiamata “Bomboniera Washington”, dove negli anni 40 si spendevano “sette lire per sedersi compresa la consumazione”. Sulla strada, davanti ai platani, si stavano togliendo i binari del tram, o meglio di quella che chiamavano “la circolare nera”, in previsione della costruzione di moderni svincoli e sottopassi tra la via Nomentana e il grande parco di Villa Borghese, parallelamente alle Mura Pinciane.

Noi il gelato lo consumavamo di solito in piedi, continuando poi a camminare verso Piazzale Porta Pia. Ma mentre mio padre era in fila alla cassa, io e mia madre avevamo qualche minuto per sbirciare quegli strani tipi che, chini sulle scacchiere, spostavano ogni tanto quei pezzetti di legno. “Mamma, possiamo avere una scacchiera così anche noi?”  “Ora non si può, sai, tuo padre deve risparmiare, dobbiamo comprare casa, ma puoi chiedere allo zio se te ne regala una per Natale…”

Andammo infatti a vivere, alcuni mesi dopo, in estrema periferia, a Monte Sacro, dove negli anni Sessanta quasi è sorta una città e dove allora c’erano appena quattro vie attorno ad una chiesa e a tanti giardini (Monte Sacro in quegli anni era nota anche come “Città Giardino”). Là portai la scacchiera di Natale dello zio, ma rimase inutilizzata in cantina per un tempo troppo lungo.


Più tardi venni a sapere che il Caffè Fassi era stato un locale veramente importante, che aveva visto la frequentazione di parecchi famosi personaggi, da Beniamino Gigli a Ruggero Ruggeri, da Amedeo Nazzari a Clara Calamai, da Tito Schipa a Trilussa. Sembra vi sia entrato un giorno persino Eugenio Pacelli (papa Pio XII).

E imparai che l’accostamento Caffè-Scacchi aveva avuto in Europa, a partire dalla metà del 700 (il “secolo del gioco”) predecessori illustri: al Cafè de la Régence, a Parigi, aveva imparato a giocare Philidor, e nel 1798 vi giocò Napoleone, e vi giocarono anche Rousseau, Voltaire e Robespierre. A Vienna si giocava al Caffè Neuner, a Budapest al Caffè Wurm, a Milano al Caffè del Leone, a Genova al Caffè Bella Napoli.

Nella stessa Roma c’era dal 1760 in via dei Condotti l’Antico Caffè Greco, del quale abbiamo già scritto, e c’era stato soprattutto il “Caffè de’ Scacchi”, al Corso, situato in via di S.Claudio, sotto Palazzo Verospi, e frequentato da un grande nome del nostro passato scacchistico, quel Serafìno Dubois che talora capitava anche al Régence.

Nei suoi quaderni di “Quarant’anni di vita scacchistica”, ultimati nel 1894, il Dubois scriveva: “Eravamo nel 1837 e precisamente alla prima e più terribile invasione del colera, quando io, uscito di collegio, mi diedi a frequentare il Caffè di San Carlo al Corso, oggi Caffè di Roma e così splendido e grazioso come quello era piccolo e modesto ….. una sera, in un angolo del Caffè, quasi paurosi di comparire in pubblico, vidi uscire da una scatola certi pezzi di legno, disporli sopra un tavolo, ed assidersi davanti a quello due uomini attempati, burberi e taciturni ….. giuocavano con una certa prosopopea e con una lentezza straordinaria, tanto che afferrata una volta la scacchiera, che era unica, non c’era verso di levargliela dalle mani per tutta la serata. A poco a poco si venne formando …..”  E poi ancora: “…. Dopo vari mesi di pratica potei arrivare a difendermi discretamente, finché scoperto il Caffè de’ Scacchi al Corso, allora in tutta la sua gloria, più non frequentai il S.Carlo, e solo due o tre anni dopo ci tornai per mostrare con giovanile baldanza la mia superiorità a quelli che erano stati i miei primi maestri …. Quivi (al Cafè de’ Scacchi) si giuocava dalle 11 della mattina fin quasi alla mezzanotte e l’ambiente stesso si può dire fosse impregnato di nient’altro che dell’odore degli scacchi, non permettendosi che raramente la dama e non mai il romoroso dòmino, che cominciava già ad invadere quasi tutti i caffè di secondo o terz’ordine ….. Alla sera soprattutto si vedevano in moto quattro, cinque e talvolta sei scacchiere. Vi si contavano non meno di 25 o 30 giuocatori di varia forza, compreso il buon caffettiere Antonini, dilettante passionato del gioco ma non forte”.

A Venezia, invece, c’era dal 1808 l’ “Antico Caffè di Alessandria” e dal 1815 il “Caffè della Gloria”. E forse proprio alla Repubblica di Venezia si deve in parte il mantenimento di quella secolare, per quanto sopita, tradizione benevolmente favorevole agli scacchi che avrebbe poi consentito l’esplosione del gioco in Europa. A Venezia, infatti, gli scacchi hanno goduto sempre di una protezione particolare, ed è nei rinomati “casini” o “ridotti” e caffè veneziani che ha avuto principio l’abitudine (non soltanto riservata alla aristocrazia) di riunirsi per giochi e divertimenti. Si pensi che con legge del 26 marzo del 1506, come si legge nei “Diarii” di Marin Sanudo, a Venezia il Consiglio dei Dieci aveva proibito molti giochi, tra i quali tutti quelli d’azzardo (carte, dadi, persino la tombola), ma specificando: “excepto schachi, arco, balestra et balla” (E.Volpi “Storie intime di Venezia”, 1893). E già secoli prima, l’11 novembre del 1292, era avvenuta una prima “proibizione di tutti i giuochi d’azzardo, di giorno e di notte, e in qualsiasi luogo dell’episcopato; unico giuoco consentito, quello degli scacchi, che godeva di grandissima popolarità” (G.Marangoni “Giorno per giorno, tanti anni fa”, Ed.Filippi, 1971). Degli scacchi e del giuoco nella Repubblica di Venezia tornerò di certo a parlare, ma in un articolo dedicato.


Rientrando ai giorni nostri, seppi poi che negli anni ‘60 al Caffè Fassi di Corso d’Italia erano attive anche una pista da ballo ed un’orchestra, e che non raramente vi si accostarono alcune celebrità del cinema, come Lina Wertmuller, Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman. Sergio Leone vi girò gli interni di “C’era una volta l’America” e poi Verdone quelli de “I due carabinieri”. Erano gli anni ruggenti del cinema e del Bar-Caffè Fassi, che negli anni ‘70 sarebbe divenuto un po’ il riferimento della terza età del quartiere, tra il tango e il charleston che in estate si ballavano sotto il salone-tenda del suo giardino. Nelle serate invernali non erano rare le esibizioni di qualche soprano accompagnato al pianoforte o le recite di poesie o l’organizzarsi di mostre di pittura e di fotografia.

Ma lentamente il Fassi fu oscurato da effimere e passeggere mode, che lo indebolirono lasciandolo in balia di assalti e prigioniero d’interessi, finché chiuse definitivamente i battenti nel 1989, quando gli eredi della signora Annunziata (Angelo Vesco-Fassi e le due figlie), vennero sfrattati dal principe Torlonia senza che nessuna autorità si alzasse per fermare il compiersi dell’assurdo delitto.

Le strade della vita curiosamente mi riportarono a frequentare in seguito quel quartiere, in quanto fra il 1996 e il 1999 andai a lavorare, per la Banca Nazionale del Lavoro, proprio al secondo piano di quel palazzo di Piazza Fiume che è di fronte alla Rinascente, quindi a non più di 50 passi dall’ex Caffè Fassi. Pertanto non ero più lì quando, nel 2004, si compì l’ennesimo scempio sul passato, allorché furono abbattuti i due lecci e il magnifico secolare cedro che dominava sul giardino di Villa Calderai (o “Fassi”) e sulla sua graziosa fontana d’epoca sorretta da alcuni “amorini” in pietra arenaria.


E torniamo allora a Giovannino Fassi, il “gelatiere sovrano”, che visse fino al 1977, quando aveva 97 anni.

Nel frattempo l’attività di Giovanni, separata da quella della sorella Annunziata, si era spostata, come abbiamo visto, prima a Piazza Navona e poi in via Piave ed infine in Via Principe Eugenio 65, dove fu inaugurato l’11 maggio del 1928, nel 15° anniversario della scomparsa della madre Giuseppina (e c’è ancor oggi!), Il Palazzo del Freddo, Fabbrica artigianale del gelato”, anch’esso in stile liberty.

Come riporta il già citato Bartoloni, l’indomani, nella cronaca di Roma de “Il Messaggero”, si leggeva: “Inaugurato ieri in via Principe Eugenio il grande Palazzo del Freddo artificiale dovuto all’iniziativa e al lavoro di uno dei più operosi figli di Roma, Giovanni Fassi”. E ancora: “… maestoso stabilimento …. tutto costruito in marmi di Pietrasanta, con un impianto frigorifero, preciso, mirabile, con un laboratorio alla vista del pubblico, nitido, tutto splendente di luci, elegante negli arredi, stupendo per l’eleganza severa delle linee e del mobilio”.

Giovanni Fassi e il suo “Palazzo del Freddo” attraversarono momenti molto difficili tra il 1942 e il 1947. Tra le altre cose l’azienda fu requisita dalla Croce Rossa Americana fra il luglio 1944 e il dicembre 1946 e adibita alla produzione del gelato per le truppe americane in Roma. Ma i Fassi seppero superare quei momenti con mirabile energia.

Quando Giovanni si ritirò dal lavoro era il 1961, e lasciando disse ai suoi successori di ricordare sempre che “è facile iniziare un’attività, il difficile è farla continuare nel tempo”.

L’inimitabile e perenne successo del gelato Fassi è dovuto principalmente al fatto che Giovanni e la sua famiglia hanno sempre saputo star lontani dall’idea di un gelato industriale, rifiutando persino offerte da parte di gruppi come l’Algida. Il gelato artigianale Fassi “tiene botta” da sempre e ancora è in grado di “surclassare” qualsiasi gelato industriale.

Lì in via Principe Eugenio, vicino a Piazza Vittorio, in quel rione Esquilino che oggi va rassomigliando sempre più ad un angolo di Guangzhou, “Ninetto”, il gelato con lo stecco, i coni e il gelato al bicchiere ebbero l’immediato eccezionale favore della popolazione. Se ai nostri giorni Fassi vende circa 600.000 gelati ogni anno, già allora si dice fossero 200.000 (ben 550 al giorno!). E anche lì arrivò il grande cinema: Michelangelo Antonioni vi girò nel 1982 alcune scene di “Identificazione di una donna”.

Non c’è più, insomma, l’elegante Caffè Fassi di Piazza Fiume, con i suoi giocatori di scacchi e i miei personali ma vaghi e scoloriti ricordi di bambino, ma il marchio Fassi, con la sua famiglia, è ben vivo e vegeto al Palazzo del Freddo del civico 65 di via Principe Eugenio, ed una “Gelateria Fassi” la si può trovare oggi, grazie all’impegno di Andrea Fassi, nipote di Giovanni, persino a Seul. Niente male per una famiglia che da cinque generazioni, la bellezza di 138 anni, vive con, e per, il buon gelato.

Impastatrice del 1932, visibile ancora oggi (foto dell’autore)

Intanto domenica prossima mi recherò di nuovo “in centro”, stavolta con mia moglie, al Palazzo del Freddo, “da Fassi”, per tornare a gustare il cosiddetto “sanpietrino”, un semifreddo a forma di cubo come l’antica pietra squadrata della pavimentazione cittadina, un semifreddo “speciale”, con una glassa esterna al cioccolato ricoprente un cuore di zabaione, caffè, cocco, pistacchio o nocciolato. Una delizia da ricordare. Esattamente come il cognome “Fassi”.


P.S.
Questa è la rivisitazione di un mio scritto (“Al Caffè Fassi”) già pubblicato alcuni anni fa sul Blog “SoloScacchi” e poi presentato fra i capitoli del volume, edito da “Messaggerie Scacchistiche”, “57 Storie di scacchi” (2014).
L’articolo, ampliato, è oggi anche arricchito da alcune introvabili fotografie, gentilmente fornite da Lisa O’Connor Fassi, pronipote di Annunziata. Grazie, Lisa, e grazie anche ad Andrea Fassi!  

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