Ajedrez
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(Riccardo M.)
“Gli scacchi sono un’occupazione nobilissima, infinitamente superiore a tutti i giochi che conosco; tuttavia io sono uno dei peggiori scacchisti che esistano” (Borges).
Jorge Luis Borges, nato il 24 agosto del 1899 a Buenos Aires, è da considerare fra i più grandi scrittori nel Novecento di Argentina e del mondo, un simbolo della cultura occidentale.
Da bambino Borges imparò la lingua inglese grazie alla nonna paterna (Fanny Haslam Arnett, che era inglese), anzi si dice che lo abbia imparato addirittura prima dello spagnolo. Studiò a Ginevra durante la prima guerra mondiale, e qui imparò anche il francese e il tedesco, poi si trasferì in Spagna (a Siviglia e Madrid) dove contribuì alla nascita del movimento “ultraista”.
Tale movimento, sorto a fine Ottocento in contrapposizione al manierismo e poi al modernismo elegante e raffinato in voga nel primo Novecento (Joyce, Hemingway, Pound, da noi in Italia forse Pirandello), prediligeva il simbolismo e, nella poesia, una struttura metrica anticonformista, rifiutando soprattutto il distacco modernista fra la persona dell’artista e la sua opera.
Nel 1921 Borges tornò in Argentina, dove nel 1925 incontrò Elsa Asteta Millán, che avrebbe sposato quarant’anni dopo. Nonostante gravi problemi agli occhi, ereditati dal padre e che lo ridussero progressivamente alla cecità, scrisse molto: saggi, poesie, racconti.
Nel 1955, dopo la deposizione di Perón (che il poeta non amò per niente e dal quale fu allontanato dal suo ufficio di assistente bibliotecario per aver firmato un manifesto contro di lui) diresse la Biblioteca Nazionale Argentina e insegnò letteratura all’Università di Buenos Aires. Morì il 14 giugno del 1986 a Ginevra, dove si era trasferito con la seconda moglie, María Kodam.
Il suo stile profondamente riflessivo e sognatore, a tratti inquietante ma alieno da ricercatezze formali, la costante ricerca del rapporto fra individualità e universalità, il suo scetticismo nei confronti di qualsiasi ideologia, fanno di lui un intellettuale, quasi un filosofo, più che un semplice scrittore: “Ignoro” –disse Borges- “se la musica sappia disperare della musica, e il marmo del marmo; ma la letteratura è l’arte che sa profetizzare quel tempo in cui sarà ammutolita …”.
“Borges è un autore oceanico, un crocevia di esperienze e piani dell’essere, un caleidoscopio nel quale il passato si fa futuro e il futuro si rispecchia continuamente nel passato, riscrivendolo e reinventandolo”, così lo dipinge oggi il giovane filosofo Andrea Scarabelli.
Enorme è stata l’influenza di Borges su alcuni autori; ne cito soltanto due: Philip K. Dick e Italo Calvino. In effetti si può considerare Borges anche come il padre della letteratura fantastica, ovvero di quel ramo che visse oscillante fra realtà e fantasia o sogno, fra esistenza e non-esistenza.
Eppure lui non ebbe mai il premio Nobel per la letteratura, nonostante una ventina di candidature: una pagina da dimenticare per gli organizzatori del Nobel. Ma delle spiegazioni ci possono essere: Borges era un individualista, non amava le correnti letterarie e nemmeno quell’arte impegnata che ti porta in prima pagina ma che spesso è abbastanza serva della politica. Infine, particolare non trascurabile, non faceva nulla per apparire simpatico e, come si dice oggi, “alla mano”.
Ma non era il successo ciò che Borges cercava, lui amava dichiararsi più un lettore che uno scrittore: confidava ad esempio di aver letto dodici volte la Divina Commedia pur non conoscendo bene l’italiano, lingua della quale amava “la stupenda musicalità”.
Amava anche gli scacchi, abbiamo detto all’inizio. Ed era inevitabile che colui che si era definito “uno dei peggiori scacchisti che esistano”, dedicasse nella sua opera un piccolo spazio anche al nostro gioco.
Scriveva il poeta, matematico e astronomo persiano Omar Khayyam (1048-1131) che “noi siamo i pedoni della misteriosa partita a scacchi giocata da Dio. Lui ci sposta, ci ferma, ci respinge, poi ci getta uno per uno nella scatola del nulla”
Jorge Luis Borges rievoca e cita Omar Khayyam (e questo suo tema) nei sonetti qui trascritti. Si tratta di due sonetti diversi, ma dallo stesso titolo (“Ajedrez”, appunto) e dallo stesso argomento, tanto che li proponiamo insieme.
Li presenta così lo stesso scrittore argentino in uno dei suoi “Ultimi Dialoghi”:
“Sulla scacchiera ciascun pezzo crede di godere di libero arbitrio ed invece no, la mano del giocatore li spiazza; anche il giocatore crede di godere di libero arbitrio, ma lui è diretto da un dio che dipende a sua volta da altri dei.
Si costituisce così tra i pezzi del gioco di scacchi una continuazione senza fine, una catena dalle maglie infinite.
Io ho scritto su questo tema due sonetti intitolati “Ajedrez“.
Tutti e due hanno il medesimo tema: i pezzi si credono liberi e non lo sono, Dio si crede libero e non lo è. L’altro Dio lo crede e non lo è, e così di seguito, infinitamente.”
Ajedrez (Scacchi)
1.
En su grave rincón, los jugadores
rigen las lentas piezas. El tablero
los demora hasta el alba en su severo
ámbito en que se odian dos colores.
Nel loro difficile angolo i giocatori
muovono lentamente pezzi. La scacchiera
li attarda fino all’alba nel severo spazio
dove si fronteggiano i due colori.
Adentro irradian mágicos rigores
las formas: torre homérica, ligero
caballo, armada reina, rey postrero,
oblicuo alfil y peones agresores.
Dentro irradiano magici rigori
le forme: torre omerica, agile
cavallo, vigorosa regina, ultimo re,
obliquo alfiere e pedoni aggressori.
Cuando los jugadores se hayan ido,
cuando el tiempo los haya consumido,
ciertamente no habrá cesado el rito.
Quando i giocatori si saranno lasciati,
quando il tempo li avrà consumati,
certamente non sarà compiuto il rito.
En el Oriente se encendió esta guerra
cuyo anfiteatro es hoy toda la tierra.
Como el otro, este juego es infinito.
In Oriente s’infiammò questa guerra
che oggi ha per teatro tutto il mondo.
Come l’altro, questo gioco è infinito.
2.
Tenue rey, sesgo alfil, encarnizada
reina, torre directa y peón ladino
sobre lo negro y blanco del camino
buscan y libran su batalla armada.
Delicato re, sbilenco alfiere, ardente
regina, torre diritta e astuto pedone
sul nero e bianco della via cercano
e lanciano la loro battaglia armata.
No saben que la mano señalada
del jugador gobierna su destino,
no saben que un rigor adamantino
sujeta su albedrío y su jornada.
Non sanno che è la mano designata
del giocatore a decidere il loro destino,
non sanno che un rigore cristallino
sottomette il loro arbitrio e le loro sorti.
También el jugador es prisionero
(la sentencia es de Omar) de otro tablero
de negras noches y de blancos días.
Tuttavia il giocatore è prigioniero
(la sentenza è di Omar) di un’altra scacchiera
di nere notti e di bianchi giorni.
Dios mueve al jugador, y éste, la pieza.
Qué Dios detrás de Dios la trama empieza
de polvo y tiempo y sueño y agonías?
Dio muove il giocatore, e questi i pezzi.
Ma quale Dio, dietro Dio, è all’inizio del sentiero
di polvere e tempo, di sogno e agonie?
(traduzione di Riccardo Moneta)
Ma allora -direbbe qualcuno- se una partita perduta è da considerare un errore della mano e dell’intelligenza dell’uomo, l’uomo è di conseguenza un errore di Dio? O in alternativa, facendo nostro il dubbio di Friedrich Nietzsche, non sarà forse “… Dio un errore dell’uomo”?
Pare però che questi atei dubbi sull’universo non si possano del tutto ritagliare sul profilo di Borges, letterato non credente (lui si è più volte autodefinito “agnostico”) ma con una sottile e profonda ricerca della religiosità, così come per primo aveva già intravisto il nostro Leonardo Sciascia.
E comunque c’è da ritenere che spesso esista più religiosità in un non-credente, se ragiona e ricerca, piuttosto che nel credente che accetta e subisce, senza cercarle, le radici del suo credere in Dio.
In Borges appare spesso, segnatamente nelle sue opere più tarde, il grande ed eterno dilemma del pensiero filosofico-religioso: c’è un Dio che dà inizio ad ogni cosa, anche alle partite di scacchi? E l’universo non sarà fatto di tante diverse scacchiere, una contenuta nell’altra, dove i burattinai diventano a loro volta burattini fino a cercare l’ultimo Dio che non potrà che giocare con sé stesso?
Fra le opere di Borges vorrei segnalare “Altre Inquisizioni”, un lavoro del 1952 che possiamo trovare in italiano nelle edizioni Feltrinelli. Si tratta di una breve galleria di tanti celebri personaggi della letteratura: Cervantes, Chesterton, Hawthorne, Hume, Pascal, Schopenhauer, Valery ….
Ne scriveva una bella recensione su “Sette-Il Corriere della Sera” il filosofo Nuccio Ordine:
“…. ‘Altre inquisizioni’ dà la misura di un’arte votata al culto del raro e dell’immagine bella e simbolica, ai giochi metafisici, alle preziose e sottili divagazioni sul destino, sul sogno, sull’enigma della creazione e della persona umana, elevato a categoria, più ancora, ad articolo unico di una fede tutta negativa ma costantemente riscattata e contraddetta dalla fantasia lirica e dal libero e appassionato movimento dell’intelligenza. Siamo introdotti, da questo libro, nei sapienti labirinti tesi da una cultura ironica e paradossale, che nessuna presunta verità intimidisce, ma pronta a inchinarsi alla dignità essenziale e dolorosa dell’uomo sulla terra”.
Mi piace ricordare anche un intervento del cardinale Gianfranco Ravasi, il quale seppe cogliere bene i descritti aspetti della personalità e dell’arte di Jorge Luis Borges:
“… Persino il tempo che scorre inesorabile apparentemente all’esterno di noi, è in realtà in noi, anzi è il nostro io, come Borges afferma in ‘Altre inquisizioni’: «Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco».
Per Borges le frontiere sono sempre mobili ed esili: non c’è mai una cortina di ferro tra verità e finzione, tra veglia e sogno, tra realtà e immaginazione, tra razionalità e sentimento, tra essenzialità e ramificazione, tra concreto e astratto, tra teologia e letteratura fantastica, tra icasticità anglosassone ed enfasi barocca…
Significativa è la definizione applicatagli da un importante scrittore come Leonardo Sciascia: «Borges è il più grande teologo del nostro tempo: un teologo ateo». Questo ossimoro era sviluppato da un altro suo ammiratore e collega, John Updike, così: «Se il cristianesimo non è morto in Borges, è però in lui sopito e sogna capricciosamente. Borges è un precristiano che il ricordo del cristianesimo riempie di premonizioni e di orrore»”.
Il cardinale Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia sacra, scrisse ciò nel 2017, quando parlò anche di un episodio particolare della vita di Borges, non a tutti noto: nel 1965 Borges fu invitato a tenere un ciclo di lezioni agli studenti del “Colegio de la Immaculata Concepciòn” di Santa Fe, città portuale alla confluenza fra il Rio Salado e il Rio Paranà.
Ad invitare lo scrittore “agnostico” era stato un professore, Jorge Mario Bergoglio, allora ventinovenne, colui che è oggi Papa Francesco.
Borges accolse l’invito di quel giovane gesuita a lui sconosciuto e fu una settimana di lavoro intenso e di successo.
All’Università di Harvard, nel 1969, Borges, interrogato su quali fossero le tre opere letterarie fondamentali per l’umanità (cfr. “La Stampa” 1.12.17) avrebbe poi risposto: “Sono l’Iliade, l’Odissea e i Vangeli. Credo che la storia di Cristo non potrebbe essere narrata meglio”.

“Sono cieco e ignorante, ma intuisco che sono molte le strade”.
Queste parole del grande poeta argentino sintetizzano al meglio la sua personalità e il suo pensiero, e racchiudono forse la più grande via verso la verità, via che Jorge Luis Borges ha saputo indicarci e lasciarci.