Perdere un mondiale non fa bene (a volte neppure vincerlo)
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(Riccardo M.)
No, certe volte non fa bene neppure vincerlo, un mondiale, come ebbe a dimostrarci Fischer nel 1972. E ce lo aveva dimostrato, forse per primo, Capablanca nel 1921.
Infatti, dopo aver nel 1921 tolto il titolo a Lasker, il cubano giunse a proporre un regolamento per i matches mondiali che obbligava lo sfidante a procurarsi una borsa di almeno 10.000 dollari. Ed è quello che riuscì a combinare un determinato Alekhine nel 1927: borsa + titolo mondiale. E sgambettò così lo sbigottito maestro cubano.
Qui José Raul Capablanca ci fece vedere come perdere un mondiale poteva far molto peggio che vincerlo: prima aveva suggerito regolamenti nuovi per mettere in difficoltà gli sfidanti quando il titolo era in suo possesso, e successivamente, dopo il 1927, una volta perso il titolo, Capablanca pensò di mettere in difficoltà il nuovo campione proponendo, anziché regole nuove, addirittura uno stravolgimento del gioco!
Quale stravolgimento? Beh, la motivazione che lo spingeva era che il nostro gioco si stava inaridendo a causa delle troppe patte, e che bisognasse far qualcosa per rivitalizzarlo. Troppe patte, pensate? Quasi un secolo fa! E quindi cosa andava proponendo il fantasioso cubano?
Capablanca suggeriva di adottare una scacchiera di 100 caselle e ad inserire due nuovi pezzi: il Duca, immediatamente alla destra del Re, e il Templaro, alla sinistra della Regina. Il Duca avrebbe avuto insieme i movimenti del Cavallo e della Torre, il Templaro quelli del Cavallo e dell’Alfiere.

Pertanto il valore del Duca sarebbe stato prossimo a quello della Regina, mentre quello del Templaro poco superiore a quello della Torre. E i pedoni, naturalmente, sarebbero diventati 10, magari con la facoltà, alla prima mossa, di avanzare finanche di tre caselle. Vi rendete conto di una partita che potrebbe teoricamente aprire con una prima mossa del bianco 1.l5 (elle-5)? Beh, sconvolgente, troppo sconvolgente all’epoca soprattutto per quei bastioni della tradizione del conservatorismo che sono sempre stati gli inglesi.
Sarebbe, del resto, un po’ come proporre di cambiare il gioco del football disponendo squadre di 14 giocatori e allargando le porte fino a m.9,32 (due metri in più) per favorire più gol. Chiaramente questo diventa un altro sport.
Dall’Inghilterra arrivò infatti per tempo il primo stop alle stravaganti ipotesi capablanchiane, che qualcuno già stava prendendo abbastanza sul serio.
Molto dura al riguardo fu la presa di posizione del foglio “Falkirk Hérald”, che non esitò ad affermare: “L’opinione generale è fortemente ostile ad ogni cambiamento, anche se la proposta arriva dal campione del mondo in carica. Il gioco degli scacchi è già abbastanza difficile ed è ridicolo pensare che si stia esaurendo. Le patte? Le patte dimostrano soltanto il timore che hanno di perdere giocatori di forza pressappoco uguale, che manovrano senza allontanarsi da terreni studiati e senza rischiare molto. Non vogliamo nessuna rivoluzione. Se Capablanca immagina che gli scacchi siano un gioco del passato, da mettere da parte e da rimpiazzare con un pasticcio qualsiasi, noi gli diciamo che sta sbagliando completamente strada! Gli scacchi non hanno mai subito, nella storia, la più piccola modifica. Il gioco è molto vecchio, mentre il signor Capablanca è ancora molto giovane. E noi oggi gli diciamo convinti che domani seguiteremo a giocare ancora a quello che si è sempre chiamato “scacchi”, con lui o senza di lui non c’importa”.
Bel caratterino, eh, quel redattore del Falkirk! A Roma si direbbe: “quanno ce vo’, ce vo’”, e indubbiamente il campione del mondo, campione anche di idee pasticciate, stavolta se l’era andata a cercare! Pensate un momento a quanto quel redattore del “Falkirk Hérald” sarebbe contento di vedere che, a distanza di quasi cento anni, le caselle degli scacchi non sono ancora diventate cento, ma resistono, e molto bene nonostante le patte, a 64 come allora!
Qualche tempo dopo l’ex-campione mondiale Emanuel Lasker volle intervenire sulle diatribe in corso, mettendo con incisivi argomenti la parola fine alle stupidaggini intorno a Duchi e Templari.

Lasker lo fece dalle pagine del “Manchester Guardian”, un settimanale fondato nel 1821, dal 1855 divenuto quotidiano, tutt’oggi esistente col nome di “Guardian”. L’Italia Scacchistica riprese e tradusse quell’intervento nel suo numero di Marzo 1929.
Questa l’opinione di Lasker (“Lettera alla redazione del Manchester Guardian”):
“Analizzando la proposta di Capablanca bisogna distinguere i tre aspetti seguenti: 1.la questione della partita patta, 2.le sue conseguenze, 3.i mezzi di prevenzione. La discussione (benché Capablanca non se lo ricordi) è stata aperta da me 10 anni fa sulla rivista ungherese “Magyar Sakkvilag”. Scrivevo allora che il gioco degli scacchi era minacciato da quella che io chiamavo “morte per patta”. Non voglio dire che questa minaccia sia molto vicina e reale, ma presto o tardi, senza dubbio, essa sarà inevitabile.
Il giuoco degli scacchi esiste per i misteri che vi sono inclusi: la chiara luce della verità ucciderebbe l’interesse dello scacchista, il quale è attirato dall’audacia e dal rischio nella ricerca della verità inesplorata.
D’altra parte gli scacchi, a differenza delle scienze e delle arti, sono limitati: di conseguenza verrà il tempo che lo spirito inventivo dei maestri riuscirà a svelare i suoi ultimi misteri; quando ciò accadrà, dietro l’esempio dei maestri tutta la massa degli amatori parteciperà alla conoscenza completa del gioco e il suo sviluppo sarà terminato.
Ma questo argomento ha carattere puramente teorico ed è applicabile a ciascun giuoco: la storia conosce già un numero grande di giuochi che, una volta popolari, ora sono completamente dimenticati…. I giovani maestri contemporanei, e soprattutto Alekhine e Bogoljubov, posseggono un tal dono d’investigazione e d’invenzione che garantisce agli scacchi una vita sana ed intensa per tutta una generazione.
Se anche però la “morte per patta” fosse attuale, la proposta di Capablanca sarebbe di poco aiuto alla causa; se bisognasse, per acquistare nuove forze vitali, cambiare le regole agli scacchi, questo cambiamento dovrebbe esser fatto mantenendo la più estrema economia. Invece i mutamenti proposti da Capablanca sono arbitrari e voluminosi. La vecchia scacchiera non ha bisogno d’ingrandire le sue dimensioni e neppure vi è necessità di nuovi pezzi per complicare il giuoco. E’ possibile che la sola soppressione dell’arrocco possa essere un passo in avanti in questa direzione, ed io credo che sia così. L’arrocco mancava nell’antico giuoco, che possedeva una profonda saggezza forse non abbastanza stimata dai maestri italiani, i quali hanno intercalato l’arrocco in un passato abbastanza recente. La scelta definitiva appartiene al mondo scacchistico. Ma non vi è alcun dubbio che il progetto di Capablanca è antiestetico e per nulla profondo”.
I cannoni del “Falkirk Hérald” (e cento anni fa la stampa pesava molto più di oggi), uniti al tradizionale spirito conservatore britannico, e poi le ascoltate parole del matematico tedesco ed ex campione del mondo Lasker, smorzarono sul nascere le velleità riformiste dell’agitato fresco campione.
E non si arrivò mai neppure a prendere in considerazione la cancellazione dell’arrocco, come indicato da Lasker. Evidentemente i “maestri italiani” citati da quest’ultimo erano stati assai più prudenti di Capablanca e forse dello stesso tedesco.
I nostri avi, insomma, sono stati previdenti e noi siamo stati abbastanza fortunati: il giuoco degli scacchi fu salvo e la “morte per patta” non era evidentemente ancora troppo vicina. Possiamo anche affermare, parafrasando Lasker, che i giovani maestri “posseggono un tal dono d’investigazione e d’invenzione che garantisce agli scacchi una vita sana ed intensa per tutta una generazione”.
Per la verità è ormai trascorsa ben più di una generazione dai tempi di Lasker e Capablanca, ed oggi forse effettivamente la “morte per patta” rappresenta, unitamente al cheating, davvero una minaccia per il nostro gioco. Ne ho parlato nel mio articolo dello scorso 5 settembre, proponendo, tra il serio e il faceto, alcune modifiche, sia pure ben lontane da quelle rivoluzionarie avanzate da Capablanca che ci avrebbero condotto direttamente dentro un altro gioco.
Quello che possiamo imparare dallo svolgersi di quella discussione sulle regole e sulle modifiche è che, negli scacchi come in ogni altro gioco o sport, non dovremmo mai ascoltare acriticamente le parole e i suggerimenti riformisti di un grande campione in carica o ex-campione. Non solo il campione può sbagliare su questo terreno come chiunque altro, ma può essere anche guidato da ragionamenti e considerazioni personali a volte non propriamente sportivi. Ma neppure dovremmo sottovalutare ed archiviare per sempre certe critiche e certe intuizioni quasi profetiche (dei campioni ma non solo), e pertanto si dovrebbe essere sempre molto aperti ad ogni dibattito su tali temi, specialmente ai giorni nostri.
In conclusione, regole e discussioni a parte, io credo invece che la cosa più bella che si possa apprezzare in uno sport sia sempre la sportività, la correttezza. Vincere non è l’aspetto più importante in una competizione, e voler pensare ad una rivincita extra-sportiva nei confronti di Alekhine, come probabilmente era nell’obiettivo di Capablanca e dei suoi Duchi e Templari, fu assai antipatico.
Il cubano (e non solo lui) avrebbe dovuto prendere esempio dall’atleta basco Iván Fernandez Anaya, protagonista di un bell’episodio nel dicembre del 2012 verso la conclusione di una gara di cross-country nella regione spagnola di Navarra. Anaya era in seconda posizione dietro al leader Abel Mutai, l’arrivo era a poche decine di metri quando il corridore kenyano (medaglia di bronzo nei 3000 siepi alle Olimpiadi di Londra) si fermò pensando di aver già attraversato la linea del traguardo. I più, in simili momenti, avrebbero approfittato di un errore del genere per andare a superarlo e a vincere la corsa. Invece lo spagnolo gridò subito verso il rivale per indicargli di continuare a correre.
L’atleta kenyano vinse la gara, ma il pubblico che assistette all’insolito episodio e i quotidiani dell’indomani seppero rendere ad Iván Anaya, secondo arrivato, il meritatissimo omaggio. A fine gara così si espresse il ragazzo basco: “Anche se mi avessero detto che la vittoria mi avrebbe garantito un posto nella squadra spagnola per i campionati europei, non l’avrei fatto”.
Questa è l’essenza del vero sport, e queste come Iván sono le prime persone da far conoscere, da applaudire e, possibilmente, imitare.