Uno Scacchista

Annotazioni, Spigolature, Punti di vista e altro da un appassionato di cose scacchistiche

Preti, scacchi e vino

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Partita a scacchi, Augusto Paini, acquerello fine ‘800

(Claudio Mori)
Un acquerello di un pittore ottocentesco, Augusto Paini, mostra un cardinale che gioca a scacchi con un frate francescano su un tavolo rotondo ricoperto di un tappeto persiano. Ai piedi addirittura una pelle di leopardo. A fianco e alle spalle del cardinale vi sono un altro cardinale, che segue il gioco, e un francescano che legge annoiato un giornale. Sulla parete di sfondo vi è l’affresco probabilmente di un’ascensione di Cristo, un enorme camino, mobili dorati in stile Luigi XVI. In primo piano un grande braciere in ottone. Aggiudicato per 500 sterline all’asta Mellors & Kirk, Nottingham, il 14 marzo 2023.

Partita a scacchi, Francesco Ballesio (1860 – 1923), olio su tela

Una scena di genere, comune a molti altri pittori dell’epoca, come l’olio su tela del torinese Francesco Ballesio (1860 – 1923) dove gli interpreti sono un cardinale e due vescovi. Stesso affresco di sfondo, stesso braciere. Quei prelati in veste talare, mozzetta e mantelletta paonazza in seta hanno tutta l’aria di avere tempo da perdere. Giocano a scacchi, leggono un giornale, sbadigliano nella noia della giornata oziosa. Quella macchia di rosso al centro della tela è il più alto grado del lusso.

Quei dipinti sono come un libro letto a partire dalle ultime pagine, dove ormai i furori si sono acquietati nell’inedia. Rievocano quell’esercito di ferventi religiosi, poi in gran parte santi, o beati, che per almeno sei secoli, a partire dal Mille, hanno giurato guerra agli sacchi con tanto di anatemi e di bolle credendo di combattere l’azzardo, come fosse possibile cancellare nell’uomo lo spazio dell’illusione, e preservandoli al tempo stesso in quanto reliquie di prestigio, di potere, di ricchezza. Piccolo tesoro della manomorta ecclesiastica.

È stato scritto: chi non ha peccato scagli la prima pietra. Non a torto, se si deve dare credito al frate francescano inglese Johannes Guallensis, che a metà del XIII secolo, utilizzando come tanti altri predicatori gli scacchi per le sue allegorie, scrisse in Innocent Morality: Gli alfieri sono i vari prelati della Chiesa, Papa, Arcivescovi e i loro vescovi subordinati, che si elevano alle loro sedi non tanto per ispirazione divina quanto per potere reale, interesse, suppliche e denaro pronto – scrive il francescano -. Questi alfieri si muovono e prendono obliquamente tre punti. Perché quasi tutti i prelati hanno la mente pervertita dall’amore, dall’odio o dalla corruzione, non per rimproverare i colpevoli o per sbraitare contro i viziosi, ma piuttosto per assolverli dai loro peccati: così che coloro che avrebbero dovuto estirpare il vizio sono diventati, a causa della loro stessa cupidigia, promotori del vizio e sostenitori del diavolo”.

Il francescano ha del clero una visione severa, senza appello. Del resto fa parte di quell’esercito di predicatori, colti, che invece di stare rinchiusi nei monasteri batte città, villaggi e campagne a redimere le anime nella brutale propaganda di chi comanda e vuole controllare le coscienze. In compagnia dei frati domenicani, chiamati Domini canes, come il tanto celebrato Jacopo da Cessole, astigiano, che sugli scacchi ha edificato la visione medievale e cristiana di un mondo fatto di servi e padroni. La distanza nel tempo a volte distorce le fisionomie e confonde il digrigno con il sorriso.

Le donne, poi. Il loro movimento sulla scacchiera “è solo obliquo, perché le donne sono così avide che non prenderanno nulla se non con la rapina e l’ingiustizia”, insiste il francescano gallese nel manuale Summa collationum sive communiloquium. Figurarsi se avesse saputo che una donna siciliana e libertina come Macalda Scaletta (1240 – 1308 ca.) scorrazzava travestiva da frate minore tra Messina e Napoli e sapeva giocare molto bene a scacchi. Oppure, più tardi, a fine Trecento, che una tale Giovanna II D’Angiò, donna “instabile impudica […] che sempre era stata innamorata, avendo in più modi e con molti la sua onestà per lascivia maculata” (Pandolfo Collenuccio, Compendio delle Historie del Regno di Napoli), riuscì a fare arrivare tra le sue braccia Giovanni Caracciolo dopo averlo terrorizzato con un topo mentre stava giocando a scacchi. Nascere femmina è un peccato originale.

Negli scacchi medievali il consigliere a fianco del re poteva muovere solo di una casa in diagonale. Ma quando il consigliere mutò in regina, essa fece delle vecchie regole quello che fa una tempesta a una nave buttata sugli scogli. La donna mostrava tutta la sua pericolosità. Il Vescovo e la Regina si scambiavano i poteri. Un controcanto. Da far infuriare il clero. Ed ebbe un bel sbraitare inutilmente chi obiettò che la possibilità di più donne sulla scacchiera equivaleva a condonare l’adulterio. Ridicoli gli strilli di quel misogino francese, Gratien Dupont, che già nel 1534 disegnò nel libro Les Controverses des Sexes Masculin et Féminin una scacchiera con un insulto alla regina in ciascuna casella.

E cosa saranno mai roghi di scacchi appiccati dal francescano Bernardino da Siena (1380 – 1444), santo, o dal domenicano Girolamo Savonarola (1452 – 1498), rispetto a quello ordinato dal califfo fatimide Hakim bi Amr, nel 1005, che però tenne per sé scacchiere in seta ricamata d’oro, e pezzi in oro, argento, avorio ed ebano?

Censura religiosa, superbia travestita da umiltà. Francescani e domenicani applicavano il loro furore inquisitorio nei confronti degli eretici e nel fervore moralizzatore nei confronti del popolo. Se non che dove si bruciano libri, copricapi femminili e scacchi si bruciano anche esseri umani.

Il riformatore religioso boemo Jan Hus (c. 1371 – 1415), scomunicato dalla chiesa cattolica e bruciato al rogo dopo il Concilio di Costanza, almeno sugli scacchi aveva idee alquanto simili. In una lettera a un suo discepolo scriveva: “Te ne supplico, non imitarmi in nessuna delle leggerezze di cui sei stato testimonio. Prima del sacerdozio ho giocato spesso e con soverchio piacere agli scacchi, mi sono qualche volta adirato e ho trascinato alla collera i miei compagni. Per questa colpa e per tutte le altre che ho commesso, mi raccomando alle tue preghiere […]”.

Nel medioevo era tutto un fiorire di conventi di ogni ordine e grado. I benedettini erano la principale famiglia monastica, con i pazienti amanuensi che ricopiavano testi di scacchi quando non li scrivevano come il poema di Einsiedeln Versus de Scachis. Il loro motto era Hora et labora. Solo attorno al piccolo centro di Sant’Agata, nel riminese, per fare un esempio, nel Due/Trecento si contavano due monasteri camaldolesi, due conventi di clarisse, uno di frati minori oltre a case di terziari.

Già alla metà del XIII secolo circolavano in Europa una trentina di manoscritti sugli scacchi, di cui tre redatti da monaci Benedettini del Dorset, in Inghilterra. In Spagna aveva già visto la luce il Libro de los juegos con il patrocinio di Alfonso X di Castiglia e il monaco piccardo Nicholas de St. Nicholai aveva bellamente plagiato in più di cento fogli i problemi tratti da fonti arabe contenuti nel Bonus Socius del 1266.

La propaganda cattolica non rinuncia a utilizzare gli scacchi per la sua visione sui destini finali dell’uomo e dell’universo nemmeno dopo la riabilitazione del gioco ad opera di Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, nella Introduzione alla vita devota (1608). Un buon padre dell’Ordine degli Zoccolanti, Valentino Mantovani, frate minore in quel di Monte dell’Olmo (Macerata), scriverà ancora che “[…] Il giuocatore inesperto è l’huomo peccatore, che ad altro non attende che a pigliar pezzi, a pigliarsi gusti, piaceri in questo mondo; il giuocatore esperto è la morte, che ad altro non attende, che a dare lo scaccomatto, assalire alla sprovista, e così vincere il giuoco della vita […]” (Gemma Preziosa, Firenze, 1619).

Ma così non c’è gioco. Sai già chi vincerà la battaglia, chi è il cadavere. Gli scacchi non sono come vorrebbe la morte. Le mosse dei pezzi sono uguali per entrambi gli avversari, le regole sono le stesse. La partita è tutta da giocare, perché “questo gioco non deve procedere per fortuna ma per ingegno e sottigliezza” come scrisse Évrard de Conty nel Livre des Eschez amoureux moralisés (1496).

Vescovadi e monasteri, continuavano comunque a riempirsi di scacchiere, grazie ai lasciti dei devoti, e di manoscritti. E pure i palazzi nobiliari e le taverne non si facevano mancare le tavole, senza alcuna sottomissione. I vincoli al gioco andavano facendosi sempre meno stringenti. Come per il vino, che agli inizi era del tutto negato nelle mense dei cenobi ma già a metà del XII secolo – come denunciava allarmato il vescovo di York – molti frati faticavano ad abbandonare completamente i costumi da cui provenivano e si lasciavano tentare dal cibo, dalla ricercatezza delle vesti e soprattutto dal vino.

Partita a scacchi, Andrea Landini (1847 – 1935), olio su tela

Così già dal tardo medioevo il vino scorreva senza che alcuna regola indicasse, con la precisione di un tempo, la misura giornaliera per ciascuno. Eccezion fatta per crapula ed ebbrezza. Anche se un dipinto di Andrea Landini (1847 – 1935) fa dubitare. Mostra un cardinale che sembra curarsi più dei piaceri del corpo che delle anime. I piedi troppo delicati devono poggiare su un cuscino. In uno sfarzoso salotto beve champagne, sorseggia caffè corretto al liquore mentre gioca a scacchi in compagnia di un signore in abiti settecenteschi la cui giacca è ricamata con una cascata di rose. La scena amorosa dell’affresco sulla parete stimola fantasie.

Godimenti terreni che saranno sfrontatamente immortalati in quel gruppo di curati ubriachi fradici, quegli ipocriti, lungo la strada di Ornans nel dipinto del 1863 di Gustave Courbet Il ritorno dall’assemblea, oppure nei lavori ripetitivi di pittori più tardi come il parigino Marcel Brunery (1893 – 1982) o gli italiani Carlo Francolini (1840 – 1930) e Temistocle Lamesi (1870 – 1957).

La morale, col passare del tempo, si fa elastica, adattabile. La morale cede, anzi cade, come il re mattato. Per alcuni significa non avere morale.

Partita a scacchi, Charles Baptiste Schreiber (1847-1902), olio su tavola

In un altro dipinto dell’800, invece, la scena è decisamente più sobria. I soggetti non sono pomposi cardinali ma un fraticello imberbe e un vecchio prete di campagna dal naso affilato, i capelli bianchi scompigliati. Giocano con scacchi régence su un tavolo modesto. A fianco della scacchiera una bella caraffa di vino rosso e due calici colmi. Un’atmosfera domestica. Risaltano i colori sobri del nero e del marrone, non dell’oro e della porpora. Il dipinto a olio su tavola è opera del parigino Jean Baptiste Schreiber (1847 – 1902).

Ci s’immagina una pieve nell’assolato calore di campagna alla quale ha bussato il francescano dopo un lungo camminare tra il giallo delle spighe macchiato dal sangue rosso dei papaveri. Chissà da dove è arrivato, lì. Il prete lo accoglie nel fresco della canonica, lo nutre e lo invita a una partita a scacchi prima che l’ospite riparta. I due si immergono in una vita di riserva, piena di avventure, dove finalmente perdersi nel tempo, dimentichi di sé stessi. In un mondo così diverso da quello terreno, che giudicano severamente, e da quello celeste, che non conoscono.

Non c’è gloria in quel confronto, chissà chi ha vinto, e il prete non deve fare rintoccare il campanile come quel “piovano, (che) giucando a scacchi, vincendo il compagno, suona a martello, per mostrare a chi trae, come ha dato scaccomatto; e quando gli arde la casa, niuno vi trae” in una delle trecento novelle del priore di San Miniato Franco Sacchetti (1332 – 1400). Il frate riprende il suo peregrinare quando il cielo è allagato di bordò, come un’onda che tutto sommerge.

La storia si ripete, irriconoscibile solo ai ciechi. Un piovano di un paesello del vicentino sarà portato nel 1580 a processo, a Belluno, perché sospettato d’eresia per aver, tra l’altro, “[…] mangiato carne di maiale in un giorno proibito, e frittate nel sabato santo e altri giorni sempre proibiti […] e ha mangiato uova e formaggio sia in Venezia come in Mussolente nei giorni proibiti di Quaresima, nella vigilia e in tempori”. Ma anche perché chi l’accusa, un altro prete, sostiene che“lui è un uomo vagabondo il quale va in diverse parti del mondo e forse anche nelle città degli eretici con la sola professione del gioco degli scacchi ; nel quale sta sempre occupato il giorno e la notte tralasciando gli uffici divini ai quali sono tenuti i sacerdoti; per questo non è mai stato visto con il breviario in mano e neppure leggerlo: e dal gioco ottiene molto guadagno portando a casa molti denari guadagnati malamente”.

Il prete si chiama Lorenzo Busnardo (1523 – 1598), della Compagnia dei Gesuiti, amico tra l’altro di Giulio Cesare Polerio, l’Abruzzese, noto giocatore di scacchi e autore di diversi codici sull’argomento. Il sarto di Busnardo, Zanandrea de Andro, rincara davanti al giudice la dose: “Lui mi ha detto che ha guadagnato due mila scudi giocando a scacchi e che voleva andare a Genova e in Spagna per trovare gente che giocasse bene perché qui a Venezia non trovava più nessuno che volesse giocare con lui: e mentre è stato a casa mia, la mattina appena si levava, e prima di mangiare, e dopo aver mangiato si metteva a giocare da se stesso quando non aveva compagnia. E io non gli ho mai visto né breviario e neppure dire l’ufficio, se non solo giocare a scacchi”.

Il Sant’Uffizio due anni dopo scagionerà Busnardo dalle accuse a nome dei cardinali Giovanni Francesco Gambara e Giulio Antonio Santori. Papa Gregorio XIII gli concederà l’indulgenza plenaria. Quando si dice avere le conoscenze giuste.


 

Claudio Mori, giornalista

 

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