Spazio 1999: l’era dell’antidoping negli scacchi
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(Antonio M.)
Quanti di voi ricordano la serie televisiva inglese “Spazio 1999”? Sicuramente coloro che rientrano nella generazione dei “Baby Boomers” e una buona parte di quella “X”, mentre penso sia poco conosciuta da quelli che rientrano in quella “Y (Millennials)” e totalmente sconosciuta a quelli che rientrano in quella “Z”.
Fu trasmessa sui canali RAI alla fine degli anni Settanta e rappresentava un ipotetico futuro, invero non poi così distante nel tempo da quegli anni, dove l’uomo aveva colonizzato niente di meno che la Luna, conosciuta come luogo inospitale e non adatto alla vita, con una base dove stazionavano centinaia di persone provenienti dalla terra. Che la Luna abbia sempre affascinato l’uomo fin dall’antichità, è un dato di fatto inoppugnabile, con a lei dedicate poesie, brani musicali e racconti tutti capaci di evocare emozioni e sentimenti per lo più positivi, e per ultimo, non a caso, è stato il primo pianeta da lui raggiunto nel 1969, invero anche perché è il pianeta più vicino alla terra raggiungibile in circa tre-cinque giorni di viaggio. La storia racconta di un’esplosione di scorie nucleari che fece uscire la luna dall’orbita terrestre, con la stessa che cominciò a vagare nello spazio dove ci fu l’inevitabile incontro con altre forme di vita, ora pacifiche, ora bellicose.
Gli inglesi, in quel periodo, furono attratti da questi argomenti di fantascienza, e qualche anno prima di questa, fecero uscire un’altra serie televisiva, quella di “UFO”, dove era più ben definita una lotta con degli alieni che cercavano d’infiltrarsi sulla terra, muniti dei classici dischi volanti che emettevano un caratteristico, e per alcuni versi sinistro, suono che non faceva presagire niente di buono. Anche in questa serie c’era una stazione lunare, denominata proprio “Base Luna”, dove c’erano le donne che operavano ai monitor di controllo che avevano degli inconfondibili capelli a caschetto viola! (particolarità, invero, che si poté apprezzare al cinema dove vennero trasmessi degli episodi, visto che la serie TV era in bianco e nero). E nella foto che segue, una bella immagine con due dei protagonisti della serie, il comandante Edward Straker ed il colonnello Paul Foster, con una immaginifica scacchiera “spaziale” a tre piani, di cui quella più in alto con dei pezzi altrettanto “spaziali”, che, cosa rara per i film dell’epoca e non solo, erano posizionati in maniera corretta con le case bianche e nere al posto giusto! Per non parlare poi dell’avvenente donna dai capelli viola in minigonna vertiginosa, che potrebbe sembrare un po’ troppo audace per l’epoca, ma bisogna ricordare che gli anni Sessanta appena passati, furono quelli di quando Mary Quant lanciò, proprio in Inghilterra, la moda della minigonna che rappresentò una sorta di liberazione della donna dai soliti cliché, indicando la strada della parità e libertà sessuale, e che ottenne subito un successo… stratosferico! Per inciso, quando il caso dice la combinazione, il comandante Straker era impersonato dall’attore… Ed Bishop!
Io, poco più che ragazzino, rimasi affascinato da queste storie, ma prendendo come riferimento proprio l’anno 1999, che era sì lontano, ma in fin dei conti non poi così tanto, mi chiedevo se veramente l’uomo sarebbe arrivato a trasferirsi su altri pianeti. E non vedevo l’ora che arrivasse quel fatidico anno per vedere cosa sarebbe veramente successo.
L’anno 1999 giunse quando oramai non pensavo più a quelle serie televisive, e quando forse avrei voluto non si fosse giunti a quella data sì velocemente, portando qualche ansia (di cui non ho minimamente sofferto) dovuta allo spargersi della voce di una non meglio identificata profezia, per alcuni attribuita a Nostradamus, della fine del mondo predetta per l’anno 2000 (forse una replica della omologa profezia riferita all’anno 1000), e ad una più reale, e ventilata crisi informatica denominata “Millennium Bug”, dovuta al fatto che i computer registrano le date con due cifre e con il rischio paventato che i sistemi informatici sarebbero andati in tilt alla vista della cifra “00” dell’anno nuovo. Come qualcuno avrà intuito non accadde niente di tutto ciò altrimenti, soprattutto per la prima ipotesi, non si starebbe qui a leggere questo post!
Però il 1999 fu una data epocale per un altro fatto storico di cui l’Italia fu la promotrice: l’introduzione del controllo antidoping negli scacchi!
Sì, la cosa può sembrare bizzarra a chi non rientra nella schiera degli appassionati di questo gioco, ma fu proprio così. Questo perché la F.S.I – Federazione Scacchistica Italiana, era entrata nel C.O.N.I. che imponeva a livello agonistico detti controlli. Ma in cosa consiste il doping per uno scacchista? Questo è in realtà tristemente conosciuto, e praticato purtroppo con frequenza, in altri sport, soprattutto nel ciclismo e nell’atletica, e porta a dei miglioramenti anche notevoli della massa muscolare e delle prestazioni fisiche, con delle pratiche che prevedono l’utilizzo, tra gli altri, di anabolizzanti, steroidi ed EPO, che possono risultare, con un uso prolungato nel tempo, seriamente pericolosi per la salute dell’atleta. Naturalmente questi tipi di doping non sono applicabili ad uno sport sedentario qual è quello degli scacchi (e per questo non ritenuto tale da molti altri sportivi), e la domanda a questo punto sorge spontanea: “ma uno scacchista di cosa può doparsi?”. Ora, senza addentrarsi in dettagli particolareggiati delle varie possibilità, l’unica cosa reale è quella di un abuso di sostanze che portino ad una maggiore capacità di sviluppo e stimolazione dell’attenzione, della memoria e ad una resistenza psichico-fisica ottenuta con, ad esempio, delle anfetamine, del gingseng, di una massiccia dosa di caffè o addirittura di cocaina, ma nessuna di queste in grado, in realtà, di aumentare la forza scacchistica di un giocatore. E il dubbio su queste pratiche e sulla loro effettiva efficacia è alto, soprattutto considerando che un loro massiccio e continuativo uso possa portare a degli effetti collaterali gravi che, alla fine, al posto di migliorare la prestazione sportiva, possono deteriorarla in maniera decisa oltre che a deteriorare in maniera grave il sistema nervoso e psicologico del giocatore, per non parlare della possibilità dell’insorgenza di problemi cardiovascolari.
Poi, sicuramente, nel gioco degli scacchi sarebbe una pratica poco conveniente, esistendone un’altra che si è sviluppata con le nuove tecnologie e che non ha nessun rischio fisico per chi la pratica: il famigerato “cheating” o doping informatico. Ma le regole sono regole e tant’è.
Ed eccoci al fatidico 1999 con il primo controllo antidoping fatto in un torneo di scacchi. Dove? Naturalmente non sulla Luna ma in un posto a noi più vicino: Porto San Giorgio. Era la fine di agosto di una calda estate italiana e ci si trovava nella ridente cittadina balneare marchigiana già oggetto di alcuni nostri post, tra cui quello di Sericano nella serie “I luoghi degli scacchi” dove troverete la classifica di quel torneo (e degli altri fino all’anno 2000).
“Eravamo io, Marquez, Leone, Clay e De Niro…” iniziava così un racconto del mitico giornalista Gianni Minà a cui molti non avrebbero creduto se non avessero visto la foto sopra riportata che certificava l’incontro. E quell’incipit che lo ha reso famoso, “Eravamo io…” e poi via a snocciolare i grandi nomi dei personaggi che intervistava, tra cui l’intervista storica a Fidel Castro (che durò ben sedici ore !) a cui, insieme al Che, piacevano molto gli scacchi, diventò un classico del giornalismo.
E di quel giorno, come preso da un irrefrenabile spirito di emulazione in omaggio al grande giornalista, non avendo però nomi così altisonanti da portare, ma pur sempre di un certo rilievo per il nostro scacchismo nazionale, posso ben scrivere: “Eravamo io, Efimov, Bellia, Fabiano e Sebastianelli ad essere sorteggiati per il primo controllo antidoping nella storia degli scacchi”. Diciamo un modo di entrare nella storia scacchistica, evento sconosciuto ai più, in maniera non proprio ideale, ma così fu.
In realtà venimmo avvertiti all’inizio del torneo che ci sarebbe stato questo controllo, ma nessuno di noi prese sul serio la cosa, perché ci era stato detto che sarebbero stati sorteggiati i primi dieci in classifica. Figuriamoci poi, con i tanti nomi di spicco presenti, di cui anche veri e propri professionisti dell’Est europeo, se la cosa mi avrebbe potuto interessare.
Invece all’inizio dell’ultimo turno si avvicinò alla mia scacchiera uno degli arbitri che mi comunicò di essere stato sorteggiato.
“Ma sta scherzando?”
“No! Su queste cose non si scherza!”
“Ma mi scusi, non dovevano essere sorteggiati i primi dieci in classifica?”
“Sì, ma il controllo può essere fatto solo agli italiani e quindi abbiamo preso in considerazione i primi dieci italiani in classifica al penultimo turno. Come ha finito il turno si accomodi all’infermeria del palazzetto per effettuare il controllo”.
Questo il rapido scambio di battute, un poco surreale, che ebbi con l’aiuto arbitro e per un momento mi era sembrato di essere uno di quelli a cui alla fine si diceva: “… Sorridi, stai su ‘Scherzi a parte’!”
Effettivamente, per uno strano scherzo degli accoppiamenti e di qualche risultato a me favorevole grazie al classico sistema svizzero degli open, io mi ero ritrovato ad aver realizzato poco più della metà dei punti, ad essere tra i primi dieci italiani in classifica ed inaspettatamente ad essere sorteggiato per il controllo antidoping.

Purtroppo, persi l’ultima partita contro un avversario decisamente più forte, totalizzando un anonimo 50% dei punti e mestamente mi avviai alla sala dove c’era il personale medico ad attendermi. Qui una sorpresa, per contro, mi attendeva: uno dei due medici era l’amico scacchista Guido Bresadola, con il quale ero stato tra i consiglieri della ASIGC negli anni Ottanta, e con il quale avevamo fatto diverse riunioni del consiglio direttivo dell’associazione in giro per l’Italia con l’indimenticato presidente Renato Incelli. Ci salutammo allegramente, si fecero delle battute su quanto in essere e la cosa fece stemperare un poco la tensione, permettendomi di espletare con più serenità l’impegno senza nessun problema e consegnare i due contenitori con i campioni richiesti dalla prova. Alla fine mi fu rilasciato il foglio rosa del “Verbale di prelievo antidoping” e mi fu detto che sarei stato contattato solo in caso di esito positivo. In quel caso, mi fu spiegato nel dettaglio, avrei potuto richiedere la seconda provetta del campione prelevato, identificata dal codice presente nella striscia azzurrina, per poter effettuare la controprova di parte presso il centro antidoping per la verifica del primo responso.
Quello che si verificò poi, fece il giro del mondo come una notizia “bomba”, fedeli al motto del giornalismo che un cane che morde un uomo non fa notizia, ma al contrario un uomo che morde un cane fa uno scoop. E successe che uno di noi risultò positivo, con enorme risalto sui giornali, sui telegiornali e su tutti i media, che si buttarono a pesce su una notizia decisamente originale con titoli roboanti e ad effetto, dove veniva evidenziato il doping di un atleta in una manifestazione di uno sport decisamente non conosciuto per l’attività fisica, con l’effetto che lo stesso scacchista dovette addirittura ricorrere ad un avvocato per difendersi dalle accuse. Alla fine, con poca attenzione alla privacy, emerse con chiarezza che non fu doping intenzionale, ma dovuto ad una medicina presa per una cura che il giocatore stava facendo e che l’unica colpa a lui ascrivibile, se così si può definire, era di non aver avvertito i medici preposti dell’assunzione a fini curativi di dette medicine e le accuse decaddero senza conseguenze. Io, detto fra noi, parimenti non avrei dichiarato detta assunzione di medicinali, ma devo riconoscere che forse allora non si avevano ben chiare le conseguenze a cui si poteva andare incontro, anche per chi non poteva essere considerato un professionista della scacchiera.
Devo dire che detti controlli mi hanno lasciato, e mi lasciano ancor oggi, decisamente perplesso, visto che seri dubbi ci sono sulla effettiva efficacia di tali pratiche di doping applicate agli scacchi, ed infatti, alla fine, i controlli antidoping non furono poi così frequenti anche per il costo non proprio economico di ciascuno di essi. Da considerare però che l’anno successivo la FIDE, che era entrata nel comitato olimpico ed aveva l’ambizione d’inserire gli scacchi tra le discipline olimpiche, inserì a sua volta la pratica dei controlli antidoping. Ma oggi l’attenzione si rivolge al cheating, un’arma più sottile e sicuramente più efficace a disposizione di chi vuole imbrogliare, in grado di migliorare decisamente le prestazioni di giocatori anche mediocri e tutti gli sforzi sono rivolti a scongiurare questa pratica che può essere considerata una vera e propria piaga da estirpare.
Insomma, mi aspettavo chissà che cosa dal 1999, l’ultimo anno dello scorso millennio, avvenimenti strabilianti, viaggi verso nuovi mondi ed invece eccomi a ricordarlo per uno delle vicende più bizzarre che mi siano mai capitate.
Di sicuro, però, da quel giorno mi sono considerato a tutti gli effetti un vero atleta ed il verbale dell’antidoping, degno di un professionista ed incorniciato a mo’ di quadro, è lì a testimoniarlo!