Uno Scacchista

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Gli scacchi smemorati di Sanvito – A due anni dalla scomparsa dello studioso milanese

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I ventotto antichi pezzi degli scacchi riprodotti in legno appartenuti ad Alessandro Sanvito

(Claudio Mori)
Ventotto piccoli pezzi stilizzati in legno che raccontano un tormento. Perché sono riproduzioni di un enigma destinato a rimanere tale. Di pedine che hanno vagato per mondi e per secoli diversi e riapparsi, un giorno, alcuni qui altri là. E quante volte osservate, spaesati e ammirati, su libri o dentro le bacheche di musei.

Come quelle trovate nella pianura della prosperosa Nishapur ai piedi del monte Binalud al tempo degli imperi medievali musulmani, dove ferveva l’attività dei vasai, dei mercanti di seta, dei venditori di cannella e pepe, dei caravanserragli, e dove le cupole degli edifici erano turchesi come le gemme estratte dal suo suolo. Daterebbero IX secolo.

Omar Khayyam (1048 c. – 1131), il poeta filosofo, il mistico scettico, abitava proprio in quella città, e degli scacchi aveva conoscenza e ci giocava. Giocava con pezzi di queste forme.

Shah, Farzin, Pil, Asp, Rukh e Piyadeh (odierni Re, Regina, Alfiere, Cavallo, Torre e pedone)
Riproduzione in legno dei pezzi degli scacchi aniconici ritrovati a Nishapur

Scriveva in una delle sue quartine (Rubaijat) “dove il Destino gioca con gli uomini grazie agli scacchi […]”. Sì, certo, metafora consunta, questa. Anche in uno dei manoscritti persiani (Supplément persan) conservati alla Bibliothèque Nationale de France si legge: “Siam pedine di un gioco: giocator è il Firmamento/ da nero a bianco procediamo nello scacchiere della vita […]”.

Copertina di ‘Omar Khayyâm, Quartine, edizione 2018 BUR

Quello stesso destino che ha voluto misurarsi con chi ha fatto realizzare da un bravo artigiano questi 28 pezzi in legno. Bisogna separarli e riunirli attraverso le affinità, le differenze, le dimensioni per abbozzare cinque serie.

Shah, Farzin, Pil, Asp, Rukh e Piyadeh (odierni Re, Regina, Alfiere, Cavallo, Rukh e pedone)
Riproduzione in legno dei pezzi degli scacchi di Norimberga, Germanisches Nationalmuseum

Hanno caratteristiche simili, è vero, quasi tutti cilindrici, ma sono come occhi di ragazze, brillano in modi diversi, unici. Sono stati ricostruiti come gli originali, ora sparsi in diverse città.

Shah, Farzin, Pil, Asp, Rukh e Piyadeh (odierni Re, Regina, Alfiere, Cavallo, Torre e pedone)
Riproduzione in legno degli scacchi in osso di Venafro, X sec.

Come gli scacchi riaffiorati da un sepolcro a Venafro, nel Molise, ossa di animale tra ossa umane (vedi Roberto Cassano in, Scacchi islamici, forme astratte per cinque secoli, parte 1 e 2, UnoScacchista.com 2017).

Tra i più antichi pezzi ritrovati in Europa, tra i pochissimi sottoposti al test del radiocarbonio, risalgono alla fine del X secolo. Risorti dal cassetto del Nulla.

Quanto è piaciuta all’escatologia cristiana questa storia del cassetto, o della sacca, dentro alla quale a uno a uno dobbiamo cadere e giacere in un’indifferenziata ammucchiata, dove il Re è uguale al Pedone. Un modo troppo ordinato per affrontare la complessità e la diseguaglianza. C’è così poca immaginazione.

“Gli amici più fidi e sinceri tutti si sono perduti:
Ai piedi della Morte caddero proni uno a uno.
D’un sol vino bevemmo, in giro, alla Mensa del Mondo:
Uno o due turni prima di noi caddero ebbri?”

ricordava già Khayyam tra un gargarismo di vino e una poesia.

Chi voglia cercare una spiegazione per questi pezzi, guidato da una incrollabile ostinazione, deve intraprendere un dannato viaggio tra i dannati, come Orfeo per riportare in vita l’amata Euridice. Non voltarti, però, o quegli scacchi torneranno nel cassetto. Spariranno per sempre, come i primi scacchi indiani del VI secolo, figurativi, la cui esistenza è affidata solo alle parole di un manoscritto persiano, il Chatrang Namak, dell’VIII secolo, che già sapeva che a questo gioco “la vittoria si ottiene con l’intelligenza”. O la cui sopravvivenza è appesa alla labile testimonianza di singoli pezzi arabici dell’VII-IX secolo su supposti modelli indiani, come la splendida scultura in avorio alta 15 centimetri custodita al Cabinet des Médailles di Parigi di un Re seduto su un elefante circondato da uomini a cavallo (Hans e Siegfred Wichmann, Chess, Londra 1964).

“Prima del settimo secolo della nostra era, l’esistenza degli scacchi in qualsiasi terra non è dimostrabile da una pur piccola traccia di testimonianza storica o degna di fiducia… Prima di quel secolo c’è solo un buio impenetrabile” sosteneva agli inizi del ‘900 lo storico inglese H. J. R. Murray e in seguito il suo collega Richard Eales. Perciò, anche se la tentazione è lì, a tormentare, non voltarti.

Sono tutti pezzi smemorati, questi. Nulla raccontano di sé, dei segni e dei disegni che portano incisi sul loro corpo. Ne viene salutata la resurrezione ma la loro sepoltura non è nei registri parrocchiali. Men che meno la loro vita. Dov’è stato il loro respiro? In uno splendido castello? In una misera tenda? Nelle bisacce di un guerriero?

Questi infelici eroi non riveleranno mai il loro segreto. E sfuggono a chiunque cerchi di afferrarli, come se Biancofiore imprigionata in una torre di Alessandria rifiutasse che l’amato Filocolo giocasse a scacchi contro il guardiano Sadoc per liberarla. Assurdo. Per fare le cose in grande hanno dato scacco matto alla loro storia.

Shah, Farzin, Pil, Asp e Rukh (odierni Re, Regina, Alfiere, Cavallo e Torre)
Riproduzione in legno degli scacchi in osso e avorio delle Catacombe di San Sebastiano, oggi nei Musei Vaticani

Allora si può cercare tutt’al più di avvicinarsi alla verità, dal momento che non ci sono più le botteghe degli artigiani che li hanno realizzati, né le tavole su cui abili mani li hanno mossi. Solo ipotesi. Ecco perché è stato realizzato questo mucchietto di legni, per raccogliere l’eredità dei morti, per inturne il senso, se non di carpirne il segreto, di instaurare con loro una minima complicità anche perché, stando almeno al filosofo rumeno Emile Cioran, “la complicità totale sarebbe compatibile solo col monastero o con l’assassinio”. E se lo sforzo sarà inutile, poco importa.

“Chi ideò o suggerì all’intagliatore questo disegno, curò sicuramente l’aspetto della semplicità e della praticità, ma sia pur nell’astrattezza e nella stilizzazione, cercò, molto probabilmente di trasferire nel modo più chiaro possibile le figure originali delle serie di scacchi naturalistiche nei nuovi modelli”. Probabilmente. Chi scrive è Alessandro Sanvito, uno dei massimi storici del gioco in Italia, in uno dei suoi numerosi saggi sull’argomento. E suoi sono proprio gli scacchi in legno di cui parliamo. Li ha tenuti sempre con sé, in primo piano dentro una vetrinetta del suo studio, per non smettere mai d’interrogarli. Scacchi arabi, di origine persiana, quasi certamente. Quasi.

E la loro forma? Non è forse troppo semplicistica, rassicurante in maniera sospetta, la tesi del divieto di pezzi astratti per rispettare le regole musulmane? “[…] gli arabi, ancor prima della predicazione di Maometto, ebbero la possibilità di conoscere e abbracciare religioni che vietavano l’uso di statue e simulacri, il che può voler dire che per quello che concerne la nascita del modello scacchistico in questione, non necessariamente quel particolare profilo deve essere attribuito all’Islam” si esprimeva ancora Sanvito. Dubbi.

Shah, Farzin, Pil, Asp e Rukh (odierni Re, Regina, Alfiere, Cavallo e Torre)
Riproduzione in legno di scacchi musulmani con decorazioni, probabile fattura russa XIII secolo

Le rigature diagonali dei pezzi di Venafro, uniche, come gli inseriti in avorio, ora scomparsi, sui Re, sull’Alfiere, sulla Donna “perché in diverso materiale e perché in pochi pezzi?” Bella domanda. Perché?

In quel mucchietto ci sono scacchi con incisioni diverse, verticali, diagonali, altri ancora mostrano cerchietti sulla parte anteriore, “particolarità quasi sempre assenti nei pezzi di scacchi di sicura produzione musulmana. Ecco, forse sono pezzi europei, fabbricati sul modello islamico”, ancora Sanvito. Forse. Come i loro cugini ripescati nel nord Europa, frutto di orgogli locali, e conservati al museo parigino di Cluny dove la testa di un Cavallo è una placca triangolare che sporge sul davanti e già fa pensare al prototipo di un animale, con cerchi incisi per la coppia degli occhi e due segni orizzontali per la bocca o quelli ad Albano, in provincia di Roma, quattro antichi pezzi in osso abbelliti anche questi dalle decorazioni ad “occhi circolari” collegati da sottili linee verticali ed oblique, con alla base tre righe circolari orizzontali parallele.

Dunque con i suoi pezzi musulmani, o modelli ad essi ispirati, e del tutto ignari del loro mistero, Alessandro Sanvito, scomparso due anni fa, il 19 ottobre 2020, ha lasciato in eredità anche un’inesauribile curiosità e voglia di conoscenza. E non è un caso che abbia disposto di donare proprio questi scacchi a un amico collezionista.


 

Claudio Mori, giornalista

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