Gli scacchi furiosi
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Giovanni Carlone (1584 - 1631), affresco in villa Spinola di Sampierdarena: lite durante una partita a scacchi tra Megollo Lercari e il favorito di Alessio II
(Claudio Mori)
All’Imperatore del Sacro Romano Impero, e anche Re di Sicilia Federico II (1194 – 1250), lo stupor mundi, l’anticristo di papa Gregorio IX, quando saltava la mosca al naso poteva diventare pericoloso. Ce l’aveva con Gualterotto, del quale sospettava avesse mire sul regno di Gerusalemme retto da Re Giovanni (Giovanni di Brienne la cui figlia Iolanda, tredicenne, sposò Federico II). Voleva sbarazzarsene. Erano tutti e tre parenti. Ma quando si tratta di beni, di regni, il sangue può diventare acqua. E poiché Federico II “non poteva avvelenarlo, voleva ucciderlo con la spada quando sedesse a giocare a scacchi”, scrive Fra Salimbene da Parma (1221 – 1288) nella sua Cronaca.

Ecco, momenti furiosi attraversano di quando in quando la storia degli scacchi, direttamente o indirettamente. A volte gli scacchi sono inconsapevoli testimoni, altre volte solo evocati in modi di dire, in proverbi espressione di una cultura che aveva già ben assimilato quel gioco importato e imparato dai saraceni. Arabe erano ancora le regole del gioco e la forma dei piccoli pezzi aniconici in avorio, od osso o legno.
Gualterotto se la cavò per miracolo perché Re Giovanni venne a sapere del proposito del genero Federico. Allora “andò, prese per un braccio il nipote, che giocava con l’Imperatore, lo tirò lungi da tavolo da gioco, e bruscamente nel suo francese lanciò all’Imperatore questo rimprovero: Figlio di un diavolo di beccaio. E l’Imperatore s’intimidì e non rispose verbo”.
Insulto pesante, perché alludeva a una calunnia secondo la quale sua madre Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI, essendo in età avanzata avrebbe finto la gravidanza prendendo il figlio di un beccaio di Jesi, “[…] se lo pose sotto per farlo credere portato da lei”, riportò lo storico fiorentino Giovanni Villani (1280 – 1348).
Vero è, invece, che i rapporti tra Costanza e il marito erano andati deteriorandosi nel tempo per l’ostinazione di Enrico a invadere Puglia e Sicilia e a depredare e distruggere i maggiorenti che lo avevano tradito. Costanza prese le difese del regno di Sicilia e i giocolieri di corte commentarono: “Se ora alcuno desse scacco al Re, la Regina non verrebbe a coprirlo”.
Federico II, “l’eretico”, non la smetteva di aggredire le terre della Chiesa. Ci provava gusto. Tra luglio e settembre del 1239 prese d’assalto i castelli bolognesi di Piumazzo e Crevalcore, smantellandoli. Meno bene gli andò inizialmente contro Vignola. “Onde i giocatori di scacchi derivarono il proverbio: scacco per Vignola aven (ebbero, ndr.) Plumazo”, scrive Salimbene. Sono stati senza dubbio loro, “i giocatori di scacchi”, a tirar fuori quel detto, dice il francescano. Poco dopo, comunque, anche Vignola capitolerà.
Lo scontro con il papato non conobbe tregua. L’Imperatore fu persino scomunicato da Gregorio IX. E il braccio di ferro continuò con il successore, Papa Innocenzo IV, eletto nel 1243. Impossibile raggiungere un accordo, tra diffidenze e minacce reciproche. Al punto che il Papa trovò opportuno rifugiarsi in gran segreto a Genova, la sua terra d’origine, dopo aver rifiutato un ennesimo, sospetto invito per un colloquio a Narni.
L’Imperatore non la prese affatto bene. Mentre cercava di convincere i pisani a dichiarare guerra ai genovesi una smorfia di rabbia scivolò sul suo viso e disse: “Io quando giocava a scacchi col Papa aveva sempre tal partito in mano che gliela dava matto, o almeno guadagnava il Rocho (Torre, ndr). E i genovesi hanno dato della mano sul tavoliere e mi hanno fatto perdere il gioco” (Agostino Giustiniani, Castigatissimi annali…, Genova 1537)
Ancora Salimbene racconta di una ragazza, Beatrice, pugliese di origine, che abitava ad Ancona e “aveva tesori, era bellissima, vivace, sollazzevole, liberale, cortese e molto esperta nel gioco degli scacchi e dei dadi”. Ghiberto da Gente (1200 – 1270), già Signore di Parma, volle sposarla mentre si trovava in esilio nella città marchigiana. Ma uno dei suoi figli, Pino, un tipaccio che aveva litigato con tutta la famiglia, gliela portò via.
Beatrice, andata a vivere con il marito a Bibbianello, in Toscana, temeva che quel disgraziato l’avrebbe uccisa e lo confessò, in lacrime, a Salimbene in occasione di una visita al monastero di Monfalcone dove il frate in quel momento si trovava. Che si aspettava? La risposta del religioso fu serafica, la consigliò “di confessarsi, di vivere sempre in grazia di Dio, per essere in ogni momento preparata alla morte”. Amen. E così fu. Pino fece soffocare Beatrice con un guanciale di piuma dal suo scudiero Martinello. Una sporca faccenda.
Non c’era corte, palazzo nobiliare, taverna sia nell’Impero romano sia in quello islamico dove nel XIII secolo non ci fosse una scacchiera in una inquieta miscela di moralità, erotismo, guerra, storia. L’inverno era il tempo per fare figli, per l’educazione dei rampolli, per le tresche amorose davanti a una scacchiera, per amori infelici, per notti alle quali non seguivano albe dei morti nei regolamenti di conti, per le decisioni a chi fare guerra la primavera successiva, a partire dal mese di maggio, quando ormai la terra era asciutta, e l’erba era cresciuta folta nei campi per nutrire i cavalli e i buoi. Vite appese a un filo.
Il Sultano di Babilonia voleva prendersi le terre del Sultano di Hamano, e lo assediò. Allora quest’ultimo decise di sbarazzarsene. A quel tempo le cose funzionavano così, era normale. A tale scopo corruppe con una quantità di doni un valletto di camera del nemico. E il valletto approfittò del fatto che il suo Sultano, dopo aver giocato a scacchi, andava a stendersi su una stuoia ai piedi del suo letto per riempirgliela di veleno.
Il Sultano si sdraiò, scalzo, e il veleno penetrò attraverso una ferita nella gamba paralizzandolo e lasciandolo per due giorni senza bere, né mangiare, né parlare. Dopo di che ritenne più saggio tornarsene tra sue genti, in Egitto, come riporta Jean de Joinville (1224 – 1317) nel suo libro La sesta Crociata, ovvero l’istoria della Santa vita e delle grandi cavallerie di Re Luigi IX di Francia.

È un buon momento per uccidere, mentre qualcuno sta giocando a scacchi. Ci avevano provato anche gli aspiranti assassini di Alessio I, Imperatore bizantino a Costantinopoli (1048 – 1118). Per assalire la camera imperiale avevano scelto il fare del giorno quando sapevano che Alessio, per consuetudine, era solito concedersi “qualche tregua alle molestie principali, le quali non permettendogli di quietare neppure la notte, intrattenendosi con i famigliari suoi, tutti della più stretta consanguineità, a giocare a zatricio (scacchi, ndr), specie di passatempo infin dagli Assirj ingegnosi artefici di piaceri a noi venuto per nostro uso e diporto” (Anna Comnena, Alessiade, 1148). I congiurati furono scoperti e puniti.
Luigi IX, il santo, che aveva una vera fobia per dadi, scacchi, dama, backgammon tanto da metterli al bando, da gettarli in mare mentre navigava verso Gerusalemme, imitato poi da altre anime alla ricerca consolatoria di un assoluto, alcuni proclamati santi pure loro, altri predicatori a vario titolo, ebbe una controversia con il Principe dei Beduini per una questione di tributi durante la sesta Crociata, mentre si trovava a San Giovanni d’Acri, in Terrasanta, assediata dai mamelucchi. Luigi ottenne le scuse del beduino il quale gli fece anche diversi doni tra cui un elefante di cristallo e, chissà se con perfidia, “figure di uomini di diverse fazioni in cristallo, e tavole e scacchi altresì, il tutto fatto a rifioriture dì ambra rilegate sul cristallo a belle roselline e giràli di oro puro” (Joinville, op., cit.). I musulmani strapparono Acri ai Crociati (1291).

I Signori litigavano per le terre, le città medievali si azzuffavano tra Guelfi e Ghibellini. All’interno delle stesse città le diverse fazioni se le davano di santa ragione, senza esclusione di colpi. Come a Firenze, dove la lotta per dominio del Comune da parte dei Bianchi e dei Neri, entrambi Guelfi, era senza quartiere.
Così un giorno Betto Brunelleschi, mentre giocava a scacchi in casa fu aggredito e ferito alla testa da due giovani della famiglia Donati e da alcuni loro amici. Nello scontro anche uno degli assalitori venne ucciso da un figlio di Betto. Betto, dopo alcuni giorni, “arrabbiato, senza penitenza o soddisfazione a Dio e al mondo, e con gran disgrazia di molti cittadini, miseramente morì: della cui morte molti si rallegrarono, perché fu pessimo cittadino” scrive Dino Compagni (c. 1246 – 1324) in Cronica delle cose correnti ne’ tempi suoi.
Betto era stato un commerciante senza scrupoli, odiato da popolo perché in tempi di carestia si era tenuto in casa il grano, voltafaccia ghibellino passato ai Guelfi Neri, sospettato di essere tra i responsabili dell’uccisione nel 1307 del compagno di fazione Corso Donati, uno dei coraggiosi capitani fiorentini della battaglia di Campaldino (1289) contro i ghibellini aretini, massacrati. Betto fu accoltellato dagli eredi di Donati quattro anni dopo, nel 1311. Le vendette potevano anche consumarsi lentamente ma andavano comunque condotte a termine.
Una fine analoga fece Regalino di Uguccione Malavolti, nella Siena ghibellina. Giocava anche lui in casa in piena notte a scacchi e si prese una coltellata, nel marzo 1344, per mano di quattro guelfi Piccolomini.

Intorno agli stessi anni le cronache genovesi riferiscono di un mercante, Megollo Lercari, il quale si era trasferito a Trebisonda, uno dei porti bizantini più attivi, e che era entrato nelle grazie del gran Commeni Alessio II attirandosi ovviamente le gelosie degli altri cortigiani. Nel corso di una partita a scacchi tra Megollo e un favorito del re, Andronico, pare si fossero scambiati canzonature, il primo nei confronti dell’avversario perché effeminato, l’altro nei riguardi dei genovesi. Apriti cielo. Megollo pretese le scuse da parte del re, senza ottenerle. Allora corse a Genova, armò due galee, tornò sul Mar Nero, saccheggiò città e villaggi, mozzò orecchie e nasi ai prigionieri.
Alessio II fu costretto a consegnare il favorito a Megollo il quale gli risparmiò la vita ma non, con un ghigno, un’ultima frecciata: “Genoesi mai incrudeliscono contra donne” (A. Giustiniani, op. cit.)
Claudio Mori, giornalista