Uno Scacchista

Annotazioni, Spigolature, Punti di vista e altro da un appassionato di cose scacchistiche

Una sfida

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(Riccardo M.)
Cosa c’è dietro una partita a scacchi e dentro una partita a scacchi? I giocatori e gli spettatori la guardano e la giudicano allo stesso modo? Si emozionano allo stesso modo? Per quali ragioni una decisiva “pedone nero b3-b2” può non sollevare gli stessi plausi e ammirazioni di una dubbia “Donna bianca x h6+”?

E senza la partecipazione, di prossimità o in rete, del pubblico, un giocatore esisterebbe ugualmente? Oppure, come un qualunque attore di teatro, non riuscirebbe a fare a meno del pubblico? Proviamo a cercare alcune risposte.

Qualche sera fa seguivo un programma televisivo d’intrattenimento e ascoltavo una di quelle sottili e divertenti storielle che raccontava uno dei miei cabarettisti e comici preferiti: Fabrizio Maturani, in arte “Martufello”, il “comico burino” (è di Sezze, in provincia di Latina, classe 1951) che dalle “feste di piazza” arrivò a calcare per tantissimi anni lo storico “Salone Margherita” di Roma a fianco di personaggi altrettanto o più famosi quali Pippo Franco, Oreste Lionello o Leo Gullotta.

Vediamo se la ricordo, quella storiella, scusandomi intanto perché io riesco piuttosto male a raccontare barzellette, le quali mi sono di solito più ostiche persino di quella “difesa francese” che mi costrinse in gioventù, incompreso, ad abbandonare per sempre 1.e4 in favore della ben più dinamica e drammatica 1.g4.

Martufello

Orbene, siamo ad un circo. Fra gli artisti c’è uno spericolato acrobata che da almeno vent’anni si arrampica per 30 metri su una scala e, una volta in cima, si butta a testa in giù infilando la testa nella sabbia sottostante. Un venerdì si presenta al suo impresario dichiarandogli che non gliela fa più, che sta invecchiando, che la testa gli fa male e che vorrebbe cambiar mestiere. L’impresario lo supplica di essere presente almeno allo spettacolo dell’indomani, sabato sera, e poi lo avrebbe lasciato libero per sempre. L’acrobata cede e, per finire la carriera in bellezza, annuncia che per l’ultimo spettacolo avrebbe alzato la scala a 40 metri da terra anziché a 30 e che avrebbe eseguito il salto da bendato, senza vedere nulla, neppure l’atterraggio…. E così il giorno dopo fa questo… e si butta. Ma, stranamente, giunto a terra, non sente nessun applauso da parte del pubblico, contrariamente al solito. Che cosa sarà andato storto? Molto deluso, ci riprova: sempre bendato risale sulla scala e si butta di nuovo da 40 metri. La testa duole sempre di più, ma ciò che di nuovo gli fa più male è la mancanza degli applausi del pubblico, ancora una volta del tutto silenzioso e indifferente allo spettacolo. Innervosito, decide di riprovarci. Anzi, stavolta alza la scala fino ai 45 metri. Si butta, affonda nella sabbia con un sordo e sinistro rumore; si rialza con la testa ciondolante e dolente, aiutato dall’impresario ma ancora nel silenzio generale del pubblico. “Ma che succede? Cos’è questo inconcepibile silenzio?” chiede esterrefatto e quasi piangente (e sempre bendato) all’impresario. “Beh” -risponde quest’ultimo- “potevi almeno aspettare che io alzassi il sipario, no?”.

Insomma, l’azione in sé non conta nulla, anche se è da record mondiale, allorché si svolge in assenza di un pubblico che ti giudica e che plaude o disapprova. Il sipario è fondamentale. E il pubblico, a sua volta, plaude o dissente anche quando ne capisce poco o nulla, perché di solito gli spettatori Tizio e Caio applaudono o dissentono a seconda di ciò che ha fatto lo spettatore Sempronio un secondo prima di loro. Eh, già: imitare il pensiero degli altri è più facile e più rassicurante del mettersi a pensare in proprio ed essere propositivi.

La storiella narrata da Martufello mi ha ricordato un significativo e coinvolgente racconto dello scrittore e drammaturgo tedesco Patrick Süskind (nato il 26 marzo del 1949), racconto che fu pubblicato in Italia nel 2007 da Longanesi, nella raccolta “Ossessioni”, col titolo “Una sfida”, ovvero “Ein Kampf”.

Leggiamo insieme le prime due pagine e poi percorriamo sinteticamente la restante trama:

Un tardo pomeriggio di agosto, quando ormai quasi tutti se n’erano andati dal parco, sotto il bersò nell’angolo nord-ovest del Jardin du Luxembourg, uno di fronte all’altro al tavolo degli scacchi, restavano ancora due uomini la cui partita veniva seguita da almeno una dozzina di spettatori con tale attenzione che, benché fosse già quasi l’ora dell’aperitivo, nessuno si sarebbe sognato di lasciare il suo posto prima che la partita si fosse decisa.

L’interesse della piccola folla era tutto rivolto verso lo sfidante, un giovane coi capelli neri, la carnagione pallida e dei boriosi occhi scuri. Non diceva una parola, non cambiava espressione, solo di quando in quando faceva rotolare fra le dita una sigaretta spenta; pareva in tutto la nonchalance fatta persona. Nessuno conosceva quell’uomo, nessuno l’aveva mai visto giocare. Eppure fin dal primo istante, in cui così pallido, sfrontato e muto si era seduto al tavolo per sistemare i pezzi, l’impatto era stato così forte che gli astanti avevano sentito l’incrollabile certezza di trovarsi di fronte a una personalità provvista di doti del tutto fuori del comune.

Forse era quell’aspetto attraente e al contempo inavvicinabile del giovane, i suoi vestiti eleganti, la sua figura gradevole; forse era la calma, la sicurezza dei suoi gesti; forse l’aura di estraneità ed entusiasmo che lo circondava. Di fatto il pubblico, quando non aveva ancora spostato il primo pedone, era pienamente convinto che si trattasse di un eccellente giocatore di scacchi che avrebbe compiuto il miracolo da tutti segretamente bramato battendo il matador locale degli scacchi.

Questi, un ometto alquanto repellente di circa 70 anni, era sotto tutti gli aspetti l’esatto contrario del suo giovane sfidante. Indossava la tipica tenuta da pensionato francese -pantaloni blu e gilè di lana sbrodolati di cibo-, aveva le mani tremanti macchiate di vecchiaia, i capelli radi, un naso rosso e il viso tutto segnato da capillari violacei …. Gli astanti lo conoscevano benissimo. Tutti avevano già giocato contro di lui ed erano sempre stati battuti perché, nonostante fosse un giocatore di scacchi per nulla geniale, aveva l’odiosa caratteristica, in grado di logorare e irritare i suoi rivali, di non fare errori…. Per batterlo, uno doveva proprio giocare meglio di lui. E questo -così si pensava- sarebbe accaduto oggi stesso: un nuovo maestro era venuto a stendere il matador, anzi, a massacrarlo, trucidarlo mossa dopo mossa, a calpestarlo nella polvere e a fargli assaggiare finalmente l’amarezza di una sconfitta. “In guardia, Jean! Oggi sarà la tua Waterloo!”.

Il vecchio Jean oggi ha la mano esitante, fin dai primi pur banali tratti, di fronte al giovane campione che gioca con i pezzi neri delle mosse rapide e sicure fino ad un sacrificio di pedone, mai visto prima ma di fronte al quale gli spettatori si scambiano sguardi eloquenti di approvazione.

Ad un certo punto della partita il giovane elegante smette di ruotare la sigaretta fra le dita e solleva la mano fino a spostare la Regina nera, e la sposta in profondità fra le schiere dell’anziano rivale, fra gli sguardi ammirati degli spettatori, nessuno dei quali, benché tutti s’intendano di scacchi, mai azzarderebbe una mossa del genere. Ecco, non si capisce bene cosa ci fa la Regina lì, dove minaccia soltanto dei pezzi a loro volta difesi, ma “… il giocatore medio non può comprendere tutte le mosse di un maestro … lo scopo e il senso più profondo della mossa si sarebbero ben presto svelati, il maestro aveva il suo piano, questo era certo, lo si capiva dall’espressione imperturbabile, dalla mano sicura e tranquilla. Dopo quell’inconsueta mossa di Regina, anche l’ultimo degli spettatori capì che alla scacchiera sedeva un genio come non se ne vedevano spesso … gli occhi degli spettatori brillavano di ammirazione… diabolico questo Nero, che grinta! Un professionista … un grande maestro! … E aspettavano con ansia”.

Aspettano con ansia non tanto la risposta del vecchio Jean, quanto la successiva mossa del giovane manovratore dei Neri, che ormai ha stregato tutti gli astanti. E la successiva sua mossa è ancora di Regina, che egli poggia sulla colonna laterale, dove “non minaccia nulla e non difende nulla, sta lì, del tutto inutile, eppure è bella, incredibilmente bella … solitaria e fiera in mezzo alle fila del nemico”.

Il vecchio Jean tentenna, dondola sulla sedia ed è un tormento il solo guardarlo: Jean non capisce, e dopo lunghi ripensamenti va a prendere un secondo pedone e poi un terzo. Ora il vecchio Jean è in vantaggio di ben tre pedoni, ma il vantaggio non conta nulla, lui è preoccupato, mentre al pubblico par di vedere nel giovane coi pezzi neri “un vago sorrisetto di trionfo che gli arriccia gli angoli delle labbra”.  

Molto titubante, Jean attacca la Regina nera con un pedone, una mossa dilatoria con la quale “cerca di sottrarsi al suo destino”. Il Nero afferra la … afferra … no, non afferra la sua Regina ma l’Alfiere campo-scuro e lo sposta in “g7”! Sacrifica la Regina! Esterrefatto resta il pubblico, che guarda sbalordito il suo nuovo eroe, il quale gioca come loro avrebbero sempre voluto giocare. Quasi scusandosi, il vecchio Jean cattura la Regina nera e un istante dopo l’alfiere del Nero dichiara scacco al Re bianco fra l’entusiasmo degli spettatori. Esitante e quasi terrorizzato, Jean copre lo scacco col Cavallo, ma il Nero getta nella mischia una Torre e poi anche la seconda Torre, mentre ogni sua mossa è apertamente acclamata dal delirante pubblico.

Dopo una serie di scambi apparentemente suicidi, al Nero “restano ancora soltanto tre pezzi: il Re, una Torre e un solo pedone”, ma il giovane “sembra del tutto imperturbabile davanti alla catastrofica situazione” e gli spettatori “… tuttora punterebbero qualsiasi cifra su di lui”. Il vecchio Jean può ancora prendere matto, ma dovrebbe ormai commettere un “errore da pivello”, mentre “tutti sperano ardentemente che Jean faccia questo passo falso”.

L’orologio sul Campanile di Saint-Sulpice suona le otto … il noleggiatore delle tavole da tria ha già chiuso da un po’ la sua bancarella … ‘Non deluderci! Noi crediamo in te, uomo prodigio, fai un miracolo e vinci!’ Il giovane taceva … aspirò una boccata, soffiò il fumo sulla scacchiera. Passò una mano nel fumo, la tenne sospesa un momento sopra il Re nero e poi lo rovesciò … un gesto estremamente villano abbattere il Re in segno della propria sconfitta”.

Il giovane se ne va immediatamente, senza parlare né salutare nessuno. Sparisce. Gli spettatori, sorpresi, imbarazzati ed umiliati, si dileguano anche loro in fretta e qualcuno mormora perfino delle scuse nei confronti del vecchio “matador Jean”. Era bastato un fascino innato, subito propagatosi fra le fila degli astanti, a far considerare geniali delle mosse altrimenti assurde, a far apparire un beffardo e ignorante impostore alla stregua di un atteso liberatore, di un vendicatore.

Resta soltanto il vecchio Jean al centro della piazza, sotto gli olmi stanchi del Jardin du Luxembourg, ma Jean non è meno sconsolato e deluso degli altri. Un tempo avrebbe spazzato via un dilettante tanto maldestro, maleducato, inesperto e incompetente come quello, gli avrebbe dato scacco matto in poche mosse. Oggi non l’aveva fatto. Perché -si chiede l’autore e si chiede lui stesso-, non l’aveva fatto? Forse per vigliaccheria? No, peggio, la risposta è un’altra: lui “aveva voluto illudersi di non essere all’altezza … aveva perfino provato ammirazione per lo sconosciuto, non meno degli altri, sì, e aveva desiderato che potesse infliggere a lui, Jean, la sconfitta che ormai da anni era stanco di aspettare … e che gli spettatori fossero infine soddisfatti, per essere lasciato finalmente in pace”.

In pratica Jean “si era rinnegato e denigrato davanti al più miserabile dei dilettanti … in realtà aveva subito una sconfitta, una sconfitta così schiacciante e definitiva perché era priva di rivincita … e per questo decise -lui che non era mai stato un uomo di grandi decisioni- di abbandonare per sempre gli scacchi”.

E’ un racconto breve, ironico e avvincente, nel quale l’autore (bavarese ma a lungo vissuto ad Aix en Provence, in Francia) ha saputo mettere in campo tutta la sua sottile sensibilità. Nelle sue parole la vittoria e la sconfitta sfumano intrecciandosi tra loro in una scenografia surreale, divertente ma tragica nello stesso tempo. Una storia in cui si evidenziano impietosamente tante debolezze umane, debolezze che condizionano l’esistenza delle singole persone quanto della società stessa, malata in pari tempo di protagonismo e di paure, di altezzosità e di vigliaccherie, di conformismo e di imprevedibili voltafaccia e abbandoni.

Il racconto ha pertanto anche una chiave di lettura socio-politica, scorgendosi nel giovane elegante e sfrontato, che sfida sulle 64 caselle l’esperto ma balbettante anziano, qualcosa di simile a ciò che ebbe origine col “People’s Party”, il partito del popolo (oggi diremmo “populista”) fondato a Cincinnati nel 1891 e fulcro di quei movimenti di protesta che sul finire dell’Ottocento rappresentarono i ceti agrari degli stati meridionali degli Stati Uniti d’America.

Tutti i movimenti similari che ne seguirono, fino ai giorni nostri, non hanno fatto che rastrellare il consenso popolare, alzando l’immaginario sipario e abbagliando le masse ingenue con promesse demagogiche, impossibili da mantenere. Essi incarnano le aspirazioni di centralità e sovranità dei popoli, un mix di idee di purificazione, rivendicazioni, patriottismo, sicurezza, onestà ed equità sociale, nel solco di una democrazia di facciata che può rapidamente sfociare, in specie ove sopraggiunga una simpatia di massa per un “uomo forte” dal perverso fascino, in regimi apertamente autoritari.

Il punto è proprio quello rappresentato dallo sconosciuto giocatore di scacchi della novella di Süskind: giovane, affascinante, temibile, innovativo, apparentemente non compromesso con l’invidiato e colpevole potere, finto portatore delle istanze di un gruppo di persone che non lo capiscono ma che ugualmente, così suggestionate, si prostrano irragionevolmente ai suoi piedi, ai piedi di una carismatica leadership priva di competenze, programmi e visioni, ma all’apparenza semplificatrice dei problemi di tutti e capace di donare a tutti le bramate soddisfazioni e rivincite. “Un gregge bovino” precisa l’autore. Tale leadership, abbagliante quanto pericolosamente accentratrice, porta invero dentro di sé quel terribile virus capace di erodere e distruggere le menti e le istituzioni democratiche di un Paese.

Sì, ci siamo anche divertiti a leggere d’un fiato le veloci e appassionanti pagine di Patrick Süskind e della sua “Una sfida”, ma poi al divertimento è logico quanto opportuno che faccia seguito la riflessione, la ricerca delle molte e non facili risposte alle quali apre questo affascinante racconto.

Per il momento, i miei auguri al bravo Patrick, che oggi compie 73 anni!

 


P.S.: le immagini sono dei particolari tratti dalle illustrazioni, per il volume citato, firmate da Jean Jacques Sempé.

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