Marostica: gli scacchi dell’innocenza nell’allestimento del Museo Internazionale
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Ingresso del Museo Internazionale degli Scacchi di Marostica
(Claudio Mori)
Ci sono luoghi, nella confusione della vita, che sembrano volere provare a mettere qualcosa al suo posto, anche solo un ricordo. Che hanno l’ingenuo desiderio di mostrare e fare comprendere qualcosa del mondo, come se ciò fosse mai possibile.
A volte basta un mucchio di sigarette bruciate fino al filtro prima di essere spente nel posacenere e deposte in un contenitore giorno dopo giorno, insieme a migliaia di altri oggetti in altri contenitori, per raccontare l’amore in un romanzo. “Gli oggetti che sopravvivono a quei momenti felici conservano i ricordi, i colori, l’odore e l’impressione di quegli attimi con maggiore fedeltà di quanto facciano le persone che ci procurano quella felicità” scrive Orhan Pamuk, ne Il Museo dell’Innocenza (Einaudi, 2009).
Uno di questi luoghi, archivisti del tempo, ha racimolato ciò che è sopravvissuto alle tempeste, pezzi di scacchi e scacchiere dal mondo, riportati a riva da una vita consumata fino al filtro. Oggetti come quelli accumulati da Pamuk, che dicono storie piuttosto che la Storia, come piace allo scrittore turco.

Il piano terra è destinato a mostre temporanee a tema scacchistico – Disegno Studio Antonio Ravalli Architetti
È quello che ha fatto il Museo Internazionale degli Scacchi di Marostica, il primo di questo genere per iniziativa pubblica, comunale, in Italia, attraverso i tre piani del medievale Castello Inferiore. E che entro l’anno aprirà al pubblico dopo l’allestimento dello Studio Antonio Ravalli.
Oggetti recuperati in vita dall’odore di credenze chiuse, dall’umidità di scantinati bui, da quelle scatole dentro le quali l’ossessione medievale agitava lo spettro della morte.
“Bella comparazione! – disse Sancho -, sebbene non così nuova che io non l’abbia sentita molte e diverse volte, come quella del gioco degli scacchi: finché dura la partita ogni pezzo ha la sua particolare mansione; ma, non appena finisce la partita, tutti si mescolano, si uniscono e si confondono, e si ritrovano tutti in una sacca, che è come finire con la vita nella sepoltura.”
(M. de Cervantes, Don Chisciotte)
Nella sacca ci stanno ricchi e poveri, re e pedoni, abbastanza capiente per avversari e amici. La Morte se ne infischia di queste tiritere morali. Quando perde la pazienza ti costringe a una partita a scacchi, e addio. Dannazione. Invocare la protezione divina serve a nulla, superfluo poi quando tutto va per il meglio.
Dalla cupa allegoria religiosa gli scacchi riemergono grazie alla ricerca dell’amore, del piacere, dello scacco come conquista erotica, non sempre certa. Henry Howard, Conte di Surrey (1517 – 1547), nella lirica Alla donna che sdegnò il suo amante lamenta: “Seppur avessi scacco, dare il matto è arduo”.
Miglior sorte tocca a Mercurio nel poema di Marco Gerolamo Vida (1490-1566), Scacchia ludus, che non solo vince una partita a scacchi contro il collega Apollo ma per premio si concede anche la ninfa Scacchide alla quale, per risarcimento, regala una scacchiera.
L’ingresso al Museo, al primo piano, è come entrare in un ballo di corte.

L’accoglienza è affidata a sfarzosi costumi rinascimentali, quelli di una partita a scacchi viventi, disegnati nel 1954 dall’artista Mirko Vucetich. Spaventapasseri di un’epoca d’oro, di potere e vanità, tra ragione e sensualità. Vestiti sfarzosi, capelli biondi, forme aggraziate e leggere come gli scacchi disegnati da Leonardo da Vinci.
La donna pari all’uomo governa, libera dal destino di sposa o monaca, più potente ancora se riflessa sulla scacchiera, capace di colpire chiunque e di cambiare per sempre il gioco. Sia pur simbolicamente, mentre è la testa di Anna Bolena (1536) che cade per volere del consorte Enrico VIII Tudor, poco dopo è quella di Robert Devereux, conte di Essex, amante di Elisabetta I, la figlia di Anna Bolena, a rotolare (1601). L’accusa è la stessa, tradimento.
Il conte se la passò peggio di Sir Charles Blount, poi conte di Devonshire, uomo molto attraente che perciò ricevette in dono dalla disinibita Elisabetta I uno scacco, una regina in oro smaltato, che si appuntò a un braccio con un nastro cremisi. Al conte di Essex montò il sangue a quella testa che ancora per poco avrebbe portato sul collo, sfidò a duello il giovane e lo ferì, salvo poi fare pace (Chisholm, Hugh, ed. 1911, Mountjoy, Barons and Viscounts s.v. Charles Blount, Encyclopaedia vol. 18 11a ed. Cambridge University Press. p. 941).
Brutta razza, le donne, avrà pensato qualcuno, dimentico dell’impossibilità di tenersi alla larga dall’amore.
Al centro della sala del primo piano la grande scacchiera di Victor Vasarely dove il vetro acrilico della tavola e i pezzi in resina trasparente riluccicano come la scacchiera della regina Anna di Danimarca nel palazzo di Greenwich, tempestata di pietre preziose e 32 smeraldi. A dispetto dell’avversità al gioco del marito Giacomo I.
Ultimo piano del castello.

Qui parlano migliaia di parole diverse, gli scacchi, punto di congiunzione tra il mondo visibile e quello invisibile, la folla di personaggi che a scacchi hanno giocato e che costituiscono la loro storia. A partire da quegli eserciti indiani di elefanti, cammelli, cavalli e carri disposti ordinatamente, pronti a scontrarsi al primo movimento in avanti di pedone. Quando “il tempo delle piogge giocava la sua partita con le rane al posto degli scacchi, che, di colore giallo e verde come fossero screziate di lacca, saltavano sulle caselle nere del campo” (Vasavadatta, 645 ca.).
In avori e cristalli sono racchiusi piccoli cilindri austeri, aniconici, obbedienti espressioni dogmatiche alla promessa di un posto migliore, di un aldilà illusorio, per i quali il nome, la parola sono la garanzia di esistenza, sia pure quasi fantasmatica. Quello è il Re (Shah), quello l’elefante (Al-fil), quella la Torre (Rukh).
Scacchi vagabondi in pietra dura o legno attraversano le immense steppe e i deserti della Mongolia racchiudendo in sé una vita nomade. E allora una pecora, una gallina o un cane vanno benissimo come pedoni (Huu), cammelle a due gobbe che allattano il loro piccolo sono gli alfieri (Temee), yurte portatili o automobili sono le torri (Terge).
Alcuni sbucano con grazia vittoriana da una Londra ribollente e maleodorante, scacchi ai quali l’autoproclamato campione del mondo diede il suo nome, Staunton (1849), e che hanno perpetuato la sua fama, in uso ovunque ancora oggi.
Altri ancora sono avanzi di superstizioni, come quella che il campione russo Michail Tal (1936 – 1992) ipnotizzasse gli avversari facendogli baluginare donne nude. Calunnie di invidiose carogne. Nei suoi occhi dolenti, acquosi, guizzavano solo i sintomi di una sbornia e l’imprevedibilità della prossima mossa.

Quei pezzi leggeri di abete e bosso hanno giocato a nascondino per due secoli nelle loro scatole rotonde. Ancora con queste scatole. Sono piemontesi, come quelli con cui giocava Niccolò Paganini. L’estasi della musica e del gioco. Sono usciti dal baratro per affacciarsi a un mercatino di paese, come per magia un coniglio dal cilindro.
C’è un angolo dove il mormorio degli scacchi sembra seccare. Là dove sono riposti pezzi consunti, incerti, rovinati da mani sporche, banderuole al vento del destino. Sono scacchi del mondo alla rovescia delle guerre infinite, rubati al legno del fuoco, agli ossi del cibo, alla mollica del pane, ai proiettili, pur di non ammazzare il gioco.
Sono tutti oggetti di per sé innocenti, come quelli di Pamuk nel suo museo, che racchiudono memorie, testimonianze, attimi. Grazie a essi si saldano le piccole storie ordinarie che il Museo degli Scacchi narra, come quella di Kemal, il protagonista del romanzo, che raccoglie tutto ciò che è legato al suo amore infelice e che lo racconta.
“Nei musei fatti con passione e ben organizzati – ha scritto Pamuk – a confortarci non è la vita stessa degli oggetti che amiamo, ma questa eternità di cui facciamo esperienza visitandoli”.
All’uscita dal portone del castello, dopo aver cercato di cogliere come era andato il mondo attraverso le multiformi rappresentazioni di piccoli eserciti, quella scacchiera in marmo bianco e rosa che disegna la piazza di Marostica è lì a ricordare che non sapremo mai come andranno le cose in futuro ma che possiamo sempre giocarcelo come in una partita a scacchi, con intelligenza e coraggio.
E quando giocate, attenti allo scacco,
sappiate come salvare, e come esporre un collo.
(Nicholas Breton, Lenvoy)
Il Museo Internazionale degli Scacchi porta anche un nome, quello di Giovanni Longo, Maestro ad honorem. La maggior parte dei set proviene dalla donazione dalla sua collezione, custodita in casa, a sua volta un piccolo museo per l’incontenibile impulso di allestire con gli scacchi un proprio mondo. Anche questa è una piccola storia senza la quale non esisterebbe la storia del museo di Marostica, unica alternativa al “collezionismo dell’ossessivo e dell’avaro”, secondo la definizione dell’antropologo James Clifford.
Claudio Mori, giornalista